Una bufala per il riso
Circola da anni – e la si può ancora trovare oggi 28 aprile 2023 ad esempio nel blog “Terroni” – l’accusa al Regno d’Italia, anzi ai “Savoia” che a quanto pare nel regno facevano tutto personalmente, di aver proibito nel 1861 la coltivazione del riso in Sicilia ovviamente al fine di proteggere la produzione del “Nord”. Chiedere ai suoi propalatori quale norma di legge abbia introdotto questo divieto è inutile: le fonti alle quali si è rimandati sono vari e vaghi riferimenti giornalistici.
Si tratta – ma nessuno se ne stupirà – dell’ennesima fandonia per creduloni. In realtà la coltivazione del riso, per ragioni di carattere igienico-sanitarie, era regolata da norme molto stringenti già in epoca preunitaria. L’articolo 5 del «Regolamento generale di servizio sanitario interno» del Regno delle Due Sicilie la collocava al primo posto tra le cause che provocavano con le loro esalazioni nocive l’insalubrità dell’aria. E il successivo art. 6 ne proibiva la coltivazione «ad una distanza in linea retta non minore di due miglia tanto dai comuni quanto dalle strade consolari di passaggio», distanza che poteva ridursi soltanto se tra le risaie e i centri abitati o le strade più vicine si interponessero «larghe vallate con fiumi o corsi perenni di acque o monti sollevati ed eminenti»: ostacoli naturali cioè atti a impedire che le esalazioni causassero i loro effetti dannosi. In Sicilia, secondo V. Mortillaro, Notizie economico-statistiche ricavate sui catasti di Sicilia, Pensante, Palermo 1854, p. 106 la coltivazione del riso occupava soltanto poco più di 16 salme in provincia di Palermo, circa 210 salme in provincia di Noto e poco meno di 250 salme in provincia di Girgenti (una salma equivaleva a ettari 1,75) per un totale di circa 831 ettari, dunque una estensione di terreno estremamente modesta, e certo non in grado di far concorrenza al prodotto di altre zone, se si consideri che nel 1850 le risaie piemontesi coprivano 63.768 ettari di terreno secondo i dati tratti da fonti coeve in R. Luraghi, Agricoltura, industria e commercio in Piemonte dal 1848 al 1861, Torino 1967, p. 16. Peraltro secondo una fonte archivistica che mi riservo di pubblicare in un mio prossimo libro – e quindi qui ometto per comprensibili ragioni – anche nelle cucine dei sovrani di Napoli si preferiva usare il riso piemontese.
Nel 1861 nulla venne innovato al proposito e dunque si continuò a coltivare come si era praticato in passato.
Il parlamento italiano intervenne con la legge 12 giugno 1866, n. 2967 (G.U.R.I. 13-6-1866, n. 162) che all’art. 1 prescriveva che le distanze delle risaie dagli «aggregati di abitazione» fossero stabilite da «regolamenti speciali […] deliberati dai Consigli Provinciali», sentiti i Consigli comunali e sanitari, che avrebbero dovuto essere sottoposti entro sei mesi, a norma dell’art. art. 6, alla sanzione regia. In difetto, avrebbero provveduto ad emanarli le prefetture. Naturalmente i termini non vennero rispettati e in taluni casi il ritardo si misurò in anni. La competenza fu dunque affidata alle singole realtà locali, sia pur sotto la vigilanza prefettizia, in modo da poter rispondere alle esigenze dei singoli, diversi territori. Comunque i regolamenti introdotti dai Consigli provinciali siciliani, e dunque non “dai Savoia” qualunque cosa si intenda con questa locuzione, non furono in nessun caso più restrittivi o addirittura proibitivi rispetto a quelli vigenti in altre province del regno.
Faccio due esempi per evitare ogni possibile, infondato vittimistico piagnisteo. Il Consiglio Provinciale di Siracusa varò il suo regolamento nel dicembre dell’anno seguente e l’emanazione seguì con R.D. 4341 del 5-4-1868. La distanza delle risaie «dalle aggregazioni ed abitati di qualunque natura» veniva fissato ex art. 1 in quattro chilometri, fatta eccezione per le case isolate per le quali si fissava una distanza di trecento metri.
Per la provincia di Catania il regolamento venne approvato nel dicembre 1869 ed emanato con R.D. 5660 dell’11-5-1860 (G.U.R.I. 7-6-1870, n. 155). All’art. 1 prescriveva che la distanza delle risaie dai centri abitati fosse di quattro chilometri, fatta eccezione per le case isolate per le quali questa distanza poteva essere ridotta fino a 200 metri. La produzione rimaneva, come era logico, contenuta in limiti piuttosto ristretti malgrado taluni miglioramenti introdotti nei sistemi colturali negli anni seguenti.
Per un confronto con province dell’Italia centro-settentrionale si possono consultare i regolamenti pubblicati in Raccolta ufficiale di leggi e decreti del Regno d’Italia. Anno 1868, Firenze 1869, ad indicem. Nella provincia di Firenze – p. 548 – le distanze prescritte variavano dagli 8 chilometri dalla capitale ai 5 km. per i centri abitati con popolazione non superiore a 10.000 abitanti, ai 3 per quelli che di abitanti ne avevano 5.000. Per i centri più piccoli si fissavano limiti via via decrescenti. In provincia di Ferrara – p. 447 – si andava dai 5 km. del capoluogo ai 2 km. per i comuni più piccoli. In provincia di Novara – Raccolta ufficiale di leggi e decreti del Regno d’Italia. Anno 1869, Firenze 1870, p. 379 – il limite oscillava dai 5 km. per alcune aree del vercellese ai km. 2,4 per i centri con oltre 12.000 abitanti.
Ovviamente non destino queste informazioni ai neoborbonici, che vivono in un mondo a parte. Ma possono forse essere utili laddove la ricerca ha ancora un senso.
Ottimo debunking. Da condividere quanto più possibile.
Ringrazio Giovanni per il suo apprezzamento. Credo condivida con me l’opinione che il neoborbonismo è il peggior nemico che gli italiani delle regioni meridionali possano avere.
Ottimo lavoro di ricerca, peccato che alcuni individui siano refrattari alla realtà.
Mi scuso con i lettori: nel testo per un errore di battitura il R.D. 5660 risulta emanato l’11-5-1860 e non, come effettivamente fu, l’11-5-1870.
Nel 1825,a Boccadifalco (Palermo) ,furono impiantate risaia di” riso secco cinese con successo”, che durarono oltre il1860…
Il signore che si firma “Marco” sarebbe così gentile da indicare la fonte di questa notizia?