Un eccidio nella Sicilia antiborbonica
Il 31 gennaio 1822 a Palermo venivano fucilati perché “carbonari” i sacerdoti Giuseppe La Villa e Bartolomeo Calabrò nel cortile della Real Casa di Correzione (l’ex Quinta Casa dei Gesuiti, attigua alla casa del duca di Montalbo), Pietro Minnelli, Giuseppe Candia, Natale Seidita, Antonino Pitaggio, Giuseppe Lo Verde, Salvatore Martines e Michele Teresi nel poco lontano largo della Consolazione. Molti di essi erano giovani o giovanissimi: ventisei anni il Seidita, ventiquattro il Pitaggio, addirittura ventuno il Lo Verde. La fucilazione, riferisce un rapporto del Luogotenente generale delle Armi, conte di Lilienberg, fu affidata ad un plotone di “Veterani”: «di avanzata età e perciò impossibilitati a tirare colla dovuta fermezza, non diressero i colpi in modo da far ritenere estinti i pazienti alla prima scarica, ma dovettero replicarli in confuso, ed a più riprese; cosicchè la esecuzione non riuscì colla dovuta precisione e produsse del disgusto negli astanti». Era la tragica conclusione della ripresa dell’attività cospirativa da parte degli irriducibili avversari del governo borbonico dopo la repressione della rivoluzione dell’anno precedente e malgrado la presenza di un forte contingente di truppe austriache con il compito specifico di mantenere in soggezione l’isola a spese, naturalmente, degli stessi siciliani. Dal luglio 1821 una trentina di «vendite» – come si chiamavano le cellule costitutive della Carboneria – erano state quindi fondate, anche se secondo l’antico e mai dismesso costume dei gruppi di cospiratori tra di esse vi erano stati dissensi e talvolta profondi disaccordi sulla condotta da tenere, sulle alleanze da stipulare, sugli obiettivi da raggiungere che ne avevano reso l’azione debole e frammentaria. Tra le più attive vendite era stata quella denominata «I seguaci di Muzio Scevola», a capo della quale era il “patrocinatore” Salvatore Meccio. L’ingenuità e l’impreparazione dei congiurati aveva però favorito la scoperta del gruppo da parte della polizia. Ne era seguito il 18 gennaio 1822 il processo da parte di una Corte Marziale Straordinaria, costituita a norma del R.D. del 18 dicembre 1821, conclusosi con la condanna a morte di quattordici carbonari. Alcuni di essi avrebbero però avuta commutata la pena dalla grazia sovrana per aver collaborato con gli inquirenti. Meccio, che era sfuggito all’arresto nel gennaio, venne poi arrestato il 16 settembre, processato per direttissima e fucilato il 19. Venti giorni dopo la giovanissima moglie, che gli storici ricordano come «una delle più belle donne di Palermo» ma senza purtroppo tramandarcene almeno il nome, morì all’improvviso. Di crepacuore, si diceva in quegli anni. La lotta contro il governo di Napoli comunque non cessò per questo. Sull’argomento si possono leggere ancora i vecchissimi ma tutt’altro che inutili V. Labate, Dieci anni di carboneria in Sicilia (1821-1831), Roma-Milano, Soc. Ed. Dante Alighieri 1904 e A. Sansone, La rivoluzione del 1820 in Sicilia, Palermo, Vena 1888.