Uffa, che barba!
Nel 1860 la rivoluzione siciliana segna la fine del regno borbonico. È la terza sollevazione popolare in armi contro il governo napoletano dopo quelle del 1820 e del 1848, e uno stillicidio di congiure, colpi di mano, rivolte prontamente soffocate a mano armata ed esecuzioni capitali. L’insofferenza isolana per la soggezione ai «domini al di qua del Faro» non aveva origini soltanto politiche e non derivava di certo soltanto dal colpo di mano con il quale, grazie al sostegno delle potenze reazionarie della vecchia Europa, Ferdinando III nel 1816 aveva cancellato con un escamotage lessicale l’antico regno di Sicilia ma aveva anche profonde e robuste radici che affondavano nel terreno dell’economia. Sul punto è condivisibile la tesi di due autori molto generosi con la politica economica dei governi borbonici che devono però concludere che «il regime borbonico preferì lasciare l’isola nel suo stato di paese prevalentemente produttore di zolfo e derrate, servendosene per lo sviluppo dei territori continentali»1. E numerosi tentativi di fondare stabilimenti industriali in Sicilia si infransero per le manovre degli imprenditori napoletani, decisi a bloccare sul nascere concorrenti che avrebbero potuto sottrarre loro quote di un mercato protetto2.
La crescente tensione tra le «due Sicilie» era poi alimentata dalle iniziative, talvolta persecutorie ai limiti del ridicolo, di una burocrazia e di un apparato poliziesco ottusamente “siculofobi”. Tale possiamo considerare l’ordinanza del 20 ottobre 1852 dell’intendente di Catania Angelo Panebianco all’indirizzo del rettore di quella Università, emessa in accordo col direttore di polizia Salvatore Maniscalco, che così recitava: «Per ordine superiore essendosi considerato che le barbe non sono più di moda, e che il portarle fuori d’uso richiama tristi rimembranze, è necessario che tutti coloro, i quali amino di comparire di buona morale, levassero dai loro volti quel segno. Epperò io mi rivolgo a lei, affinché sotto la sua responsabilità, nessun professore, studente o impiegato della R. Università indugi all’osservanza dell’ordine suaccennato»3. E al rispetto di tanta giuridica sapienza si adoperarono i solerti commissari di polizia, trascinando al luogo deputato alla sua rimozione i portatori di quel segnacolo di immoralità politica.
1 E. M. Capecelatro – A. Carlo, Contro la «questione meridionale». Studio sulle origini dello sviluppo capitalistico in Italia, Samonà e Savelli, Roma 1972, pp. 54-55.
2 Cfr. A. Marinelli, Palermo 1815-1860. L’economia preindustriale di una ex capitale, Torri del Vento, Palermo 2018.
3 «Giornale della Intendenza della valle di Catania», Tipografia del R. Ospizio, 1852. Cfr. anche Archivio della R. Università di Catania, vol. 598. Ne riferisce anche R. De Cesare, La fine di un regno, vol. 2, Capone, Lecce 2005, pp. 374-375.
Post scriptum. Mi dicono – io non sono su facebook – che taluno vorrebbe smentire non me ma l’intendente di Catania con foto di antenati. Faccio notare 1. che per evitare ogni equivoco le foto vanno datate con precisione; 2. che anche Ferdinando II portava la barba, il che rafforza il carattere arbitrario e persecutorio del provvedimento che ho citato.