Risorgimento e popolo in Sicilia
In nessun’altra area del paese come in Sicilia si registrò una partecipazione popolare così corale e diffusa al processo risorgimentale. Questa verità storica viene da troppo tempo misconosciuta o addirittura mistificata o negata dalle intemperanze di una parte estremamente rumorosa dell’opinione pubblica, frastornata o raggirata dalla propaganda «revisionista» subdola e volgare di gruppi neoborbonici, neomeridionalisti, neoguelfi etc. che hanno precisi interessi di natura politica o commerciale per costruirla e diffonderla.
Eppure è sufficiente allineare i fatti per mostrare quanto queste campagne antistoriche siano false. Nel 1820 – quest’anno ne ricorre il secondo centenario – fu la partecipazione decisa e massiccia del popolo palermitano e delle campagne a cacciare dall’isola le truppe borboniche e a strappare dalla sua posizione di prudente attesa la classe aristocratica, incerta ed esitante sulla via da seguire. Il sospetto di essere contrari alla rivoluzione costò addirittura la vita ai principi di Aci e di Cattolica. Si trattò certo di un movimento magmatico poiché nelle masse popolari mancava ancora una vera coscienza politica. Ma erano quelle masse le cui condizioni così erano descritte da Giovanni Meli appena pochi anni prima:
«Il primo aspetto della maggior parte de’ Paesi e de’ casali del nostro Regno annunzia la fame e la miseria; non vi si trova da comprare né carne né caci, né tampoco del pane; perché tolto qualche benestante, che panizza in sua casa per uso proprio, tutto il di più de’ Villani, de’ Bifolchi si nutrono d’erbe, e di legumi, e nell’autunno di alcuni frutti, spesso selvatici e di fichi d’India. Non s’incontrano che facce squallide, sopra corpi macilenti, coperti di lane sudice, e cenciose. Negli occhi, e nelle gote dei Giovani e delle Zitelle, invece di brillarvi il natural fuoco d’amore, vi alberga la mestizia, e si vedono smunte, arsicce, deformi sospirare per un pezzetto di pane, ch’essi apprezzano per il massimo de’ beni della loro vita».
Era dunque un movimento scatenato, certamente, dal desiderio di sfuggire alle ingiustizie ed alla miseria; ma la sua parola d’ordine, «costituzione di Spagna ed indipendenza della Sicilia», legava le istanze sociali ad una prospettiva politica. Poi, come accade in ogni processo storico, fu la classe egemone, in quel caso l’aristocrazia fondiaria, a prendere la guida della rivoluzione – una guida assai incerta per il timore di mutamenti nell’assetto sociale e dunque dagli esiti fallimentari, per la verità – ma i ceti popolari non solo avevano fatto la prima mossa, mantennero anche un ruolo non secondario nello svolgersi degli eventi. E quella “immensa massa di rivoltosi” che il 25 settembre 1820 combatté l’ultima battaglia alle porte di Palermo contro le truppe napoletane venute a stroncare quel movimento non era formata né comandata da membri dell’aristocrazia, era costituita da popolani.
In gran parte artigiani furono i protagonisti delle cospirazioni e dei colpi di mano che punteggiarono gli anni Venti e Trenta finendo sul patibolo o davanti al plotone di esecuzione. E quando le campane della Gancia il 12 gennaio 1848 chiamarono i siciliani, esasperati dalla crisi economica che ne aveva aggravato le condizioni, a una nuova rivolta contro il governo borbonico – un nuovo «Vespro», che mai i siciliani avrebbero chiamato «Vespri» traducendo dal francese – furono ancora una volta il popolo minuto palermitano e la classe contadina ad assumere l’iniziativa di una insurrezione che avrebbe trascinato l’intera popolazione dell’isola e costretto per la seconda volta l’armata regia ad abbandonare la Sicilia. Anche quella rivoluzione andò incontro al fallimento: le sole forze isolane erano insufficienti a conquistare la vittoria, le grandi potenze mediterranee, Francia e Regno Unito, alla resa dei conti preferirono puntare sul ritorno allo status quo ante, che non comprometteva le aspirazioni egemoniche sul Mediterraneo di nessuna delle due concorrenti, e infine la maggioranza della borghesia che si era intanto formata e il ceto aristocratico preferirono acconciarsi alla restaurazione di Ferdinando II, che li garantiva contro il rischio di concessioni alle classi popolari sul terreno economico.
Il «1860» poi, in Sicilia dove anche il tempo ha una sua diversa dimensione, ebbe inizio nell’autunno del 1859 con tumulti e insurrezioni nelle province dell’isola che continuarono per mesi, costrinsero le colonne mobili del luogotenente generale, principe di Castelcicala, ad accorrere da un punto all’altro per ripristinare momentaneamente l’ordine ed ebbero il loro culmine nella primavera del 1860 appunto, tra i timori dei grandi proprietari terrieri e le ansie dei funzionari di governo, che vedevano sfaldarsi il loro potere man mano che il movimento si allargava e conquistava sempre nuovo spazio.
Stroncato nella capitale il tentativo di Francesco Riso, tumulti e dimostrazioni avvenivano a Termini, Bagheria, Misilmeri, Partinico, Piana dei Greci, Capaci e poi ancora a Barcellona, ad Alcamo, Castellammare, Camporeale senza farsi scoraggiare da repressioni durissime come quelle compiute a Carini e nel villaggio di S. Lorenzo o dal richiamo in vigore dell’ordinanza terroristica emanata dal principe di Satriano il 16 giugno 1849. Bande di insorti comparivano in diverse parti dell’isola. L’apparato amministrativo borbonico cominciava a dissolversi.
L’intervento garibaldino giunse a dare all’insurrezione siciliana un capo riconosciuto, una guida unitaria, a raccogliere sotto un unico comando le migliaia di insorti che tormentavano le truppe napoletane e a tentare di dare continuità alla storia delle rivoluzioni siciliane richiamando in vita, con decreto del 17 maggio, tutti i provvedimenti legislativi emanati dal governo rivoluzionario del 1848. E giovani siciliani caddero combattendo a Calatafimi e nella battaglia di Palermo e ancora fino al Volturno. Fu poi la miopia della classe dirigente post-cavouriana a sprecare in gran parte il patrimonio ideale che si era accumulato in quei giorni.
Questo è ciò che accadde in Sicilia durante quel periodo storico che si definisce del «Risorgimento» e che alcuni personaggi dall’italiano incerto tentano oggi di mistificare ricorrendo a documenti inventati o travisati, sostituendo ai siciliani in armi «bande di mafiosi» – salvo poi sostenere che la mafia nacque dopo il 1860 -, diffamando l’isola intera e cercando visibilità da spendere a fini commerciali o per coltivare ambizioni politiche spesso già annegate nel ridicolo.
Augusto Marinelli