Privilegio e sfruttamento nell’economia politica dei Borbone
1.Un letamaio davanti al palazzo reale. Il giudizio degli stranieri sulla Napoli borbonica
L’Italia già da tutta l’era moderna era meta di viaggi di gentiluomini ed intellettuali attirati dal ricchissimo patrimonio artistico e dall’alto livello culturale del paese. Gli innumerevoli viaggiatori che giunsero nella Napoli settecentesca riportarono testimonianze abbastanza concordi sul contrasto fra la bellezza dei palazzi e delle chiese da una parte, la moltitudine di miserabili, i lazzaroni, dall’altra. È banale osservare che non esiste una coincidenza fra i parametri utilizzati in passato ed attualmente per definire e riconoscere la povertà. In confronto all’Europa del XXI secolo, quella del secolo XVIII appariva collettivamente più povera. Il criterio di “pauperismo” deve pertanto essere storicizzato e relativizzato, venendo posto in un determinato contesto storico in cui solo ha significato. Tuttavia, gli stranieri che scendevano a Napoli nel loro tour de l’Italie erano colpiti negativamente dalla quantità di poverissimi che abitavano nella grande capitale, in una misura che costoro percepivano essere superiore a quella riscontrabile nei loro paesi d’origine.
Autori che descrissero le misere condizioni di vita dei napoletani furono francesi come Michel Guyot de Merville (a cui si deve la prima formulazione dell’espressione di “paradiso abitato dai diavoli”, poi ripresa da Goethe e da Croce), Charles de Brosses, Jean Jacques Bouchard, tedeschi quail Johann Georg Keyssler e Wolfang Goethe, molti inglesi come Samuel Sharp o Christopher Hervey, spagnoli quale Leandro Fernandéz de Moratìn, svedesi come Giacomo Giona Bjoernstaehl ecc. Un’enunciazione completa sarebbe inutile, sfondando la proverbiale porta aperta, cosicché si potrà evitare di citare De Sade, Tocqueville, Dumas, Byron, Dickens, Hegel e molti altri ancora. Questo giudizio critico e stupefatto era formulato nonostante un pregiudizio positivo, poiché la sola forma di familiarità che i viaggiatori stranieri avevano con l’Italia meridionale era filtrata attraverso le lettere classiche, la letteratura e l’arte, cosicché la loro percezione era condizionata in senso favorevole. [Sul particolare atteggiamento dei viaggiatori stranieri innamorati dell’Italia cfr. l’ottimo saggio del critico letterario Mario Praz, La carne, la morte, il diavolo nella letteratura romantica, Firenze 1930].
Riscontri e testimonianze di condizioni sociali particolarmente negative anche rispetto ai parametri dei secoli XVIII-XIX si susseguono ininterrottamente per tutta l’era borbonica. Marc Monnier ha lasciato un vivido ritratto sulla camorra e sull’habitat socio-economico in cui proliferava nel suo studio pioneristico, scritto subito dopo la fine del dominio dei Borboni. [M. Monnier, La camorra. Notizie storiche raccolte e documentate, Firenze 1862]. Non è casuale che Marx ed Engels avessero adoperato la definizione di Lumpenproletariat, il “proletariato degli stracci” o sottoproletariato per indicare la classe sociale inferiore al proletariato stesso, avendo in mente e facendo riferimento anche ai lazzaroni napoletani. Anche viaggiatori italiani giunti a Napoli riportarono dettagliate testimonianze riguardo alla pletora di nullatenenti, poverissimi o sottoproletari che vi vivevano. Ad esempio, Benedetto Nardini in] riferisce di un particolare emblematico. Nella piazza posta dinanzi al magnifico palazzo reale di Napoli si era formato a fine ‘700 una sorta di letamaio, creatosi in conseguenza delle feci deposte dai lazzari.
Gli appartamenti personali di re Ferdinando IV di Borbone, soprannominato “re dei lazzaroni”, erano collocati proprio sul lato in cui si trovava questo ammasso di lordure, tanto che affacciandosi alla balconata egli poteva scorgerli distintamente.
«Des milliers de lazzarronnis habitent et couchent dans les rues ; il faut donc aussi qu’ils y ‘ satisfassent à toutes leurs nécessités. […] Croiroit-on possible que sur la place du château , vis-à-vis le palais du roi, et tout près de l’église de Saint-Louis, on trouve un des plus grands cloaques de Naples? Le roi, dont les appartemens donnent de ce côté, ne peut venir sur son balcon’, sans porter involontairement la vuesur ces ordures, et les fidèles ne peu vent pas entrer dans l’église sans salir leurs souliers.» [Benedetto Nardini, Mes périls pendant la révolution de Naples,Parigi 1806, pp. 18-20]
Questa immagine di estremo contrasto tra lo sfarzo regale e l’infima miseria offre un valido esempio del tipo di economia politica vigente nel reame dei Borboni di Napoli. Il regime borbonico corrispondeva agli interessi di un gruppo sociale ristrettissimo, costituito in pratica dalla famiglia reale, dalla sua corte e dai latifondisti (laici ed ecclesiastici), che nonostante le sue dimensioni davvero minime possedeva direttamente o controllava la quasi totalità della ricchezza del paese. È congruente con questo che la politica economica e sociale dei sovrani borbonici favorisse l’esiguo ceto dominante, costituito principalmente dall’aristocrazia di sangue e dall’alto clero, a discapito della stragrande maggioranza della popolazione. Essendo impossibile in questa sede affrontare in modo esaustiva la questione, ci si limiterà a presentare in maniera sintetica alcuni casi paradigmatici dell’economia politica del regime borbonico, volto intenzionalmente ad avvantaggiare il minuscolo ceto dominante ed arricchirlo a spese del grosso degli abitanti.
2. Chi più ha, meno paga. La fiscalità ai tempi di Carlo di Borbone
Mentre in altri stati d’Italia da secoli era in uso l’imposta diretta (introdotta già nel secolo XVI nel ducato di Lombardia, in quello di Savoia, nello stato della Chiesa), che tassava la proprietà fondiaria sulla base di registri e catasti, nel regno di Napoli erano rimaste in uso sino all’inizio del secolo XVIII l’imposta indiretta ed il principio dei “fuochi”. Quest’ultimo consisteva in una tassazione priva di distinzioni sul reddito e che faceva riferimento ad una capacità contributiva teorica e presunta, in assenza di proporzioni del tributo alla condizione socioeconomica del tassato. La costituzione di un catasto generale del regno di Napoli, decisa nel 1741, avrebbe dovuto rappresentare la base di partenza per porre rimedio ad un modello di fiscalità che era sia iniquo socialmente, sia inefficiente per lo stato. Questo catasto fu detto onciario poiché le proprietà furono calcolate ancora in once, unità di peso e monetaria. La sua affidabilità però si rivelò assai limitata. In primo luogo, esso era del tipo descrittivo, essendo privo della planimetria e mappatura dei possessi. In secondo luogo, era assente una comune metodologia di rilevazione da applicarsi da parte degli estimatori per calcolare il valore delle singole proprietà. Eppure, i catasti della maggioranza degli altri stati italiani si servivano da molto tempo di planimetria, mappatura, univoca metodologia di computo.
Al contrario, i criteri adottati nel regno di Napoli concessero spazio alle interpretazioni soggettive dei funzionari incaricati, di cui poterono trarre vantaggio i prominenti locali. D’altronde, questo catasto onciario rimase per tutta la sua storia ad uno stato provvisorio, giacché in intere zone o non si procedette al rilevamento, oppure esso avvenne in maniera incompleta. Nel 1806, 65 anni dopo l’emissione del decreto che imponeva la creazione del catasto, esso non era ancora pronto, tanto che dovettero occuparsene le amministrazioni di Buonaparte e Murat. La radice di questa soverchia lentezza furono le opposizioni esercitate dai feudatari e latifondisti, che non gradivano affatto l’accatastamento dei propri beni, preludio alla tassazione. Ad esempio, il casato dei Ruffo di Calabria si oppose con un certo successo all’operazione di rilevazione catastale nei suoi feudi.
Il catasto comunque era soltanto la precondizione per una tassazione diretta non più per “fuochi”, che fu teoricamente promulgata il 20 settembre 1742. Essa prevedeva tre tipologie d’imposta: per singola persona giuridica, con “testatico” o “capitazione”, che andava versato dal capofamiglia; per il mestiere, arte o professione esercitati; per il capitale posseduto, immobili, terreni, animali, depositi monetari ecc. Il sistema fiscale rinnovato prevedeva però esenzioni per molte categorie di persone. I feudatari, coloro che “vivevano nobilmente” o che esercitavano “arti liberali”, gli ecclesiastici, erano tutti esentati sia dal testatico, sia dalla tassa sulla professione. Rimaneva l’imposta sul capitale posseduto, da cui però erano esentati i beni dei patrimoni feudali ed ecclesiastici. Esistevano eccezioni a questa ultima esenzione, ma facilmente eludibili. I beni patrimoniali ecclesiastici erano soggetti all’imposizione fiscale soltanto se pervenuti per acquisto od eredità, mentre erano esclusi quelli detti del “Sacro patrimonio”, che erano il grosso. Il feudatario aveva l’obbligo in teoria di pagare la “bonatenenza” sui propri possessi allodiali (quindi quelli non feudali, ma sua semplice proprietà privata), ma quasi mai esso era corrisposto.
In conclusione, l’aristocrazia ed il clero erano praticamente esentati da tutte e tre le imposte: totalmente dalla tassa sulla persona e da quella sulla professione; sulla massa principale del loro capitale per la tassa afferente. Tuttavia, feudatari ed ecclesiastici costituivano le due classi più ricche del reame. Mentre nel clero esistevano anche membri di modesta condizione, sebbene le istituzioni ecclesiastiche avessero estesi patrimoni, i grandi latifondisti laici in intere regioni si stagliavano come magnati in un panorama composto da masse di contadini, per lo più braccianti, e da una sparuta e debole borghesia. Il Galanti così descriveva le condizioni della classe rurale nelle terre feudali:
le «case del contadino in quasi tutte le terre baronali non sono che miserabili tuguri, per lo più coperte di legno o di paglia, ed esposte a tutte l’intemperie delle stagioni. L’interno non offre a’ vostri sguardi, che oscurità, puzzo, sozzura, miseria e squallore. Un misero letto insieme col porco e coll’asino, formano per lo più tutta la di lui fortuna. I più agiati sono quelli che hanno il tugurio diviso dal porco e dall’asino, per mezzo di un graticcio, impastricciato di fango».
Il sistema fiscale introdotto da Carlo di Borbone si risolse così in un aumento della pressione tributaria, che ricadde principalmente sulle classi popolari. Alla fine, accadeva che i poveri pagassero più tasse dei ricchi. Il Galanti condannò per iscritto, vanamente, una tassazione eccessiva per le capacità di intere classi sociali, come quella bracciantile, che conduceva ogni anno alla condanna alla prigione od alla galera (intesa come nave: una condanna ai lavori forzati come rematore) per uomini morosi con il fisco.
[Su quanto sopra esiste una amplissima bibliografica. Alcune essenziali indicazioni, fra le molte esistenti: L. Barionovi, La formazione del catasto onciario, in Il Mezzogiorno settecentesco attraverso i catasti onciari, Napoli, 1983, vol. I, p. 12; G. Caridi, La spada, la seta, la croce. I Ruffo di Calabria dal XIII al XIX secolo, Torino 1995, pp. 176 sgg.; G.M. GALANTI, Nuova descrizione cit., III, Napoli 1789; E. Stumpo, Economia naturale ed economia monetaria: l’imposta, in AAVV, Annali della storia d’Italia, vol. VI, Torino 1983; R. Villari, Il Catasto onciario ed il sistema tributario napoletano alla metà del Settecento; in Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari, 1962, pp. 93-97; Idem, L ‘evoluzione della proprietà fondiaria in un feudo meridionale nel Settecento, Napoli 1958]
3. Rubare ai poveri per dare ai ricchi. La riforma agraria del 1812 in Sicilia
Si è sostenuto sovente, come ha fatto in anni recenti Lucy Riall, che le possibilità di governo dei Borboni siano state frenate dalle resistenze della società, ovvero del ceto dominante che temeva di essere minacciato nei suoi interessi. Questo è senz’altro vero, fermo restando che un simile giudizio si può applicare teoricamente ad ogni tipo di sistema politico, che non può essere mai realmente assoluto ed illimitato, poiché trova di necessità limiti al proprio potere nella società, nell’economia, nella cultura ecc. della comunità che governa. Tuttavia, è lecito dubitare che l’azione di governo dello stato borbonico abbia mai cercato effettivamente di modificare una struttura sociale di natura feudale, che nei suoi connotati basilari esisteva da secoli. Il confronto con la normativa giuridica introdotta dai Napoleonidi, Giuseppe Buonaparte prima e Gioacchino Murat poi, fa risaltare la differenza con quella borbonica. Il fratello di Napoleone, appena divenuto re di Napoli, provvide sollecitamente ad emettere leggi che ponessero termine al diritto feudale che ancora esisteva in tutto il Mezzogiorno, con la legge del 2 agosto 1806 (abolizione della feudalità) e del 1 settembre dello stesso anno (divisione dei demani). Quest’ultima provvedeva a ripartire per quote i possessi di natura feudale. Murat proseguì nel dare attuazione a queste norme dopo il breve regno di Giuseppe Buonaparte. La Sicilia, che grazie alla protezione della flotta inglese era rimasta sotto il dominio di Ferdinando IV di Borbone, conobbe la cancellazione della feudalità soltanto nel 1812, con la costituzione sollecitata da Londra. È vero che essa aboliva i possessi di natura feudale, come anche le giurisdizioni, tuttavia rispetto alle normative dei Napoleonidi contava tre differenze basilari. In primo luogo, essa imponeva ai comuni ed ai privati cittadini, ex sudditi dei feudatari, di indennizzare i vecchi signori della perdita delle rendite fiscali di cui questi godevano. In secondo luogo, non era prevista la ripartizione dei vecchi possedimenti feudali, che furono giudicati semplicemente allodiali, quindi proprietà privata dei vecchi feudatari. In terzo luogo, si procedette all’esproprio a vantaggio dei magnati delle vecchie “terre comuni”.
La conseguenza di questo fu la riforma agraria compiuta nel 1812 in Sicilia, che consistette in una gigantesca spoliazione di terre a discapito dei poveri ed a vantaggio di un esiguo numero di latifondisti. Il governo borbonico decise di porre termine alla condizione giuridica di possesso comune di terre ed uso di pascoli e risorse d’acqua vigente presso numerosissime comunità locali ed esistente da molti secoli, secondo alcuni risalenti in qualche modo sino all’epoca romana ma certamente almeno fin dal Medioevo. Invece di prendere la forma di possessi feudali, con i connessi diritti e servitù, le terre ora acquisivano lo status di proprietà privata senza vincoli, di cui il proprietario poteva disporre come meglio credeva. Questa trasformazione delle terre feudali in proprietà privata fu accompagnata dall’abolizione, sempre nel 1812, degli usi civici, come i diritti di pascolo e quelli di accesso ai boschi ed alle fonti idriche, che i contadini prima potevano esercitare all’interno delle tenute. Successivamente, nel 1817 furono aboliti i diritti di pascolo sulle altre terre comuni, che si stabilì fossero ripartite fra i privati. In conseguenza di queste leggi, tutte le vecchie “terre comuni” del regime feudale furono in breve tempo recintate e trasformate da pascoli ad arativi di proprietà privata.
Queste riforme agrarie ebbero effetti devastanti sulle condizioni economiche dei contadini, che peggiorarono in conseguenza delle usurpazioni illegali per mezzo delle quali i grossi proprietari presero semplicemente possesso di fatto delle terre un tempo di uso d’intere comunità. La legislazione promulgata affermava che era sufficiente l’uso della terra per convalidarne il legittimo possesso e demandava gli eventuali contenziosi ai tribunali. In teoria, la legge garantiva le comunità rurali, ma di fatto nell’applicazione ciò non avvenne: questo iato fra il diritto astratto e la realtà concreta si ritrovò spesso nello stato borbonico. I latifondisti poterono servirsi per gli espropri sia del loro braccio armato costituito da piccoli eserciti privati, i famosi “campieri” che erano non troppo diversi dalle vecchie masnade feudali ovvero dai bravi di manzoniana memoria, sia della stessa autorità pubblica da loro controllata localmente.
La gran massa degli agricoltori era largamente analfabeta ed ignorava letteralmente i contenuti della normativa. I funzionari locali erano inoltre collusi od espressione diretta del ceto dei grandi proprietari. I contadini che avessero osato contestare le usurpazioni compiute dai latifondisti avrebbero dovuto sostenere l’onere della prova davanti ad un tribunale, con un esito negativo praticamente scontato contro gli avvocati della parte avversa. Anche per questo, negli anni seguenti quasi tutta la terra in Sicilia era in mano a soli 2000 proprietari. Afan de Rivera in “Pensieri sulla Sicilia al di là del Faro” [Napoli 1820, p. 34] scriveva che i 4/5 dei terreni siciliani erano latifondi. Questi erano di proprietà di 142 principi, 788 marchesi e circa 1500 baroni. Può dare un’idea delle dimensioni dei vecchi patrimoni feudali ricordare che uno solo di essi, quello di Niscemi, raggiungeva le 4.686 salme (la “salma” era una vecchia unità di misura), pari a 8.153 ettari.
I latifondi dei signori laici erano affiancati da quelli di proprietà ecclesiastica, che sebbene fossero meno rilevanti comprendevano però buona parte della terra sfuggita al controllo degli ex feudatari. La chiesa cattolica possedeva in Sicilia nel 1860 1/10 (un decimo) dell’intero territorio agricolo dell’isola, con 230.000 ettari, ed esisteva anche al suo interno una dislivello sociale enorme fra l’alto clero, che aveva legami personali e familiari con la nobiltà siciliana, ed il piccolo clero, solitamente assai povero.
« in Sicilia ha esistito nel patrimonio ecclesiastico una grande disproporzione, cioè una eccessiva ricchezza di alcuni vescovadi ed abbazie, di pochi conventi e monisteri; mentre taluni altri vescovi e la gran quantità di conventi e monisteri avevano un reddito mezzano, talvolta anche ristretto; i parrochi e i loro coadiutori vivono quasi in generale stentatamente per mezzo di sussidii comunali, di decime, o assegni episcopali; la gran massa del clero vive dei minuti lasciti di culto e delle oblazioni, moltissimi de’ patrimoni provvenienti dalla loro famiglia.» (S. Corleo, “Storia dell’enfiteusi dei terreni ecclesiastici della Sicilia”, Caltanissetta- Roma 1977, p. 329).
Va aggiunto che già in precedenza erano avvenuti espropri di beni collettivi a beneficio di nobiluomini per volontà del sovrano. Accadde così che Ferdinando IV di Borbone concedesse all’ammiraglio Nelson una grande estensione di terreno nel territorio etneo, sottraendola alla comunità locale ovvero a suoi enti: si trattava infatti di terreni che da secoli erano proprietà collettiva, circa 17 mila ettari di campi coltivati, frutteti e boschi. Questa gigantesca confisca di beni era stata compiuta sul donativo del valore di un milione di ducati concesso dal parlamento siciliano al sovrano il 14 settembre 1794. Ferdinando IV se ne era successivamente servito per premiare ed arricchire l’ammiraglio inglese per il suo ruolo nella distruzione della repubblica napoletana nel 1799, togliendo fra l’altro beni all’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo e fra questi parte della rendita che veniva versata all’Ospedale da Bronte. Per di più questa spoliazione non era neppure la prima che il paese avesse dovuto subire, soltanto la più grave. Già prima dell’attribuzione di una ducea a Nelson il paese era stato costretto a confische di beni ed a processi, incarcerazioni, esili di cittadini autorevoli che avevano provato ad opporsi. L’abolizione della feudalità avvenne quindi in due modi assai diversi nel Meridione continentale ed in Sicilia, poiché differenti furono le classi politiche, le rispettive mentalità e gli obiettivi proposti. I Napoleonidi si proposero di cancellare la struttura feudale anche a livello socioeconomico, oltre che giuridico: il latifondo allodiale sopravvisse, ma quello feudale scomparve o fu fortemente ridimensionato.
Al contrario, Ferdinando IV decretò (su pressione dell’Inghilterra, di cui era alleato subalterno) la fine del diritto feudale, ma lasciò praticamente immutate le smisurate proprietà di origine feudale dei nobiluomini ed ecclesiastici. Anzi, la fine del feudalesimo consentì, paradossalmente, ai latifondisti di mettere mano alle vecchie “terre comuni”, ingrandendo ancora di più i propri possedimenti. La classe che era la base del potere borbonico e la concezione di società fatta propria da questa dinastia traspaiono con evidenza da queste scelte, che non furono inevitabili ma volontarie.
[Benedetto Radice, Memorie storiche di Bronte, edizione digitale a cura di Associazione Bronte Insieme Onlus / www.bronteinsieme.it; D. Mack Smith, “The latifundia in Modern Sicilian History”, in “Proceeding of the British Academy”, LI (1965), p. 93; O. Cancila, “L’economia della Sicilia: aspetti storici”, Messina 1982, pp. 172-188; G. Fiume, “La crisi sociale del 1848 in Sicilia”, Messina 1982, pp. 121-122]
4. «La Real casa e la Real famiglia si son sempre mantenute con molto lustro». Il bilancio del reame borbonico
Il padre nobile del meridionalismo, Giustino Fortunato, pubblicò nel 1904 uno dei suoi più importanti scritti sulla questione meridionale, La questione meridionale e la riforma tributaria, successivamente raccolto nel saggio Il Mezzogiorno e lo Stato italiano. Il Fortunato, studioso proveniente da una importante famiglia che aveva avuto un membro, (Giustino Fortunato senior, zio dell’intellettuale) primo ministro del governo borbonico, si soffermava anche sulla politica finanziaria del regno delle Due Sicilie: «Eran poche, sì, le imposte, ma malamente ripartite, e tali, nell’insieme da rappresentare una quota di lire 21 per abitante, che nel Piemonte, la cui privata ricchezza molto avanzava la nostra, era di lire 25,60.
Non il terzo, dunque, ma solo un quinto il Piemonte pagava più di noi. E, del resto, se le imposte erano quaggiù più lievi — non tanto lievi da non indurre il Settembrini, nella famosa ‘Protesta’ del 1847, a farne uno dei principali capi di accusa contro il Governo borbonico, assai meno vi si spendeva per tutti i pubblici servizi: noi, con sette milioni di abitanti, davamo via trentaquattro milioni di lire, il Piemonte, con cinque [milioni di abitanti], quarantadue [milioni di lire]. L’esercito, e quell’esercito!, che era come il fulcro dello Stato, assorbiva presso che tutto; le città mancavano di scuole, le campagne di strade, le spiagge di approdi; e i traffici andavano ancora a schiena di giumenti, come per le plaghe d’Oriente.» [Giustino Fortunato, Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, vol. II, Bari 1911, p. 337]
Il patriarca del meridionalismo coglieva in questo modo l’essenziale del bilancio statale borbonico, le cui spese erano assorbite principalmente dalle forze armate, esercito, marina, polizia, mentre settori come istruzione, sanità, opere pubbliche ricevevano pochissimo. L’ultimo anno di bilancio dello stato borbonico previsto per il 1860, quindi quello programmato prima ancora che Garibaldi sbarcasse a Marsala, pertanto in stato di pace e non di guerra, ribadiva anch’esso tale sproporzione fra le spese militari e di repressione e quelle per la popolazione. Il bilancio statale sotto Francesco II era così ripartito per la parte comune fra Meridione continentale e Sicilia: Guerra: 11.307.220 ducati; Marina 3.000.000 ducati; Affari esteri 298.800 ducati; Lista civile e spese attinenti: 1.644.792 ducati. La sproporzione fra le spese per le forze armate e quelle per la “lista civile” (praticamente tutto ciò che non cadeva sotto esercito, marina e diplomazia), non merita alcun commento tanto è evidente. In pratica le spese militari avocavano a sé circa l’87 % del totale.
Esisteva poi il bilancio riguardanti gli enti locali, le cui spese si possono così ripartire, su di un totale di 19.200.000 ducati: il pagamento del debito pregresso, che comprendeva ben 13.000.000 di ducati, quindi il 67,7% del totale; i lavori pubblici avevano una spesa totale di 3.400.000, il 17,7% del totale; le spese militari, di polizia, per la magistratura ecc. erano pari a 2.440.000 ducati, quindi al 12,7% del totale; infine, la voce “Affari ecclesiastici e istruzione” comprendeva i contributi al clero ed assieme quelli per l’istruzione e si riduceva a 360.000 ducati: meno del 2%. Il regno delle Due Sicilie alla vigilia della sua fine mostrava pertanto una spesa pubblica assorbita in misura maggiore dalle forze armate ed in misura minore dal pagamento del grave debito accumulatosi, lasciando davvero poco agli investimenti materiali od immateriali come opere pubbliche ed istruzione. [Giustino Fortunato, Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, vol. II, Bari 1911, p. 130]
Come annota il maggior storico militare italiano, Piero Pieri, nel suo monumentale studio sulla storia militare del Risorgimento, l’esercito borbonico era concepito anzitutto come uno strumento dinastico di mantenimento dell’ordine interno: quasi un corpo di polizia armato più che un esercito in senso stretto:
«Di fatto, specialmente dopo il 1849, la tendenza era stata di fare […] un esercito di polizia» [Piero Pieri, Storia militare del Risorgimento, Torino 1962, p. 658] Si tratta di un giudizio largamente condiviso, accolti, fra gli altri, da Georges Macaulay Trevelyan, ritenuto il maggior storico inglese della sua generazione: «Non era un esercito nazionale, ma dinastico. Il suo obiettivo non era tanto quello di proteggere il paese dallo straniero, quanto di presidiarlo contro i ribelli» [Georges Macaulay Trevelyan, Garibaldi in Sicilia, Vicenza 2004].
Tirando le somme, è il caso di dirlo, i Borboni di Napoli destinavano il grosso del bilancio alle forze armate, che avevano come fine principale tutelare le loro persone e quelle dei loro fedeli, le loro proprietà ed i loro privilegi. Lo Stato era così concepito anzitutto quale un gendarme posto a tutela della minuscola minoranza al vertice. La tolleranza, se non la connivenza, dei governi con le mafie e bande brigantesche che opprimevano la popolazione mostra come questo esercito così costoso servisse per proteggere il ceto dominante e non il popolo meridionale nella sua totalità. [sui legami fra stato borbonico da una parte, camorra e mafia dall’altra: Francesco Barbagallo, Storia della camorra, Roma-Bari 2010; Salvatore Lupo, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Roma 1993]
Si deve però aggiungere a quanto giustamente osserva il Fortunato che dopo la spesa per le forze armate e di polizia, la prima voce del bilancio dei sovrani borbonici era quella per la persona del re e la sua corte. Il sovrano assegnava alla Real casa, ossia a sé stesso, alla sua famiglia, ai parenti, amici, collaboratori, una cifra che superava largamente quella spesa per le opere pubbliche e le necessità sociali della popolazione dell’intero regno. Questa forma di economia politica è un “filo rosso” che attraversa l’intera storia del regno di Napoli ovvero delle Due Sicilie sotto i Borboni. È difficile ricostruire la politica finanziaria del fondatore della dinastia napoletana di questo casato, re Carlo, a causa dell’assenza di bilanci ufficiali del reame per anni interi. Ciò che si sa lascia però apparire con evidenza come egli non abbia costituito una eccezione fra i monarchi borbonici sul trono di Napoli.
L’ambasciatore veneziano a Napoli, Alvise Mocenigo, comunicava sgomento al suo governo che le spese per la persona del re e la sua corte raggiungevano i cinque milioni di ducati. Può dare un’idea delle dimensioni dell’importo ricordare che nel Mezzogiorno settecentesco un bracciante guadagnava fra 25 a 30 grana al giorno. Un grana era 1/100 del ducato, cosicché un bracciante, la categoria lavorativa più comune nel ‘700 borbonico, poteva guadagnare da ¼ ad 1/3 di ducato al giorno, ovviamente quando trovava lavoro, essendo la sua una professione fortemente soggetta alla stagionalità. [G. Coniglio, I Borboni di Napoli, Milano 1992, p. 38; N. Faraglia, Storia dei prezzi in Napoli dal 1131 al 1860, Napoli 1878; Eduardo Nappi, Banchi e finanze della Repubblica Napoletana, Napoli 1999]
Andando a Ferdinando I (IV) ed al suo lunghissimo regno, le rilevazioni sulla politica finanziaria non cambiano. Un autore di convinzioni borboniche come il Bianchini, nella sua monumentale Della storia delle finanze del regno di Napoli in sette ponderosi volumi, pubblicata a Napoli durante il regno delle Due Sicilie, offre dati minuziosi su come era ripartita la spesa pubblica sotto il “re dei lazzaroni”. Il bilancio del 1790 di 11 milioni e 535144 ducati era così distribuiti. La prima voce di spesa erano le forze armate (4203000 ducati, più di 1/3 del totale), la seconda il pagamento degli interessi sul debito pubblico (3236661, un terzo del totale), la terza la corte del monarca ed il suo appannaggio personale (1223000). Queste uscite sommate fra di loro giungevano già a 8 milioni e 662661 ducati. Restavano 2 milioni e 872483 ducati, soltanto il 25 % circa del totale, per tutte le spese rimanenti: costruzione e manutenzione infrastrutture, assistenza sociale, sanità, istruzione, pensioni, esteri, giustizia ecc. Le spese della corte di Ferdinando IV da sole superavano quelle per le opere pubbliche incluse le strade (408 mila ducati), il sistema scolastico (228 mila ducati), le pensioni (140 mila ducati), gli orfanotrofi ed il “monte delle vedove” (55 mila e 512), tutte quante messe assieme. La politica economica cambiò pochi anni più tardi, ma non invertendo l’indirizzo strategico bensì rafforzandolo. Difatti, scrive il Bianchini: «Dopo del 1792 crebbero i tributi, ma le sole pubbliche spese a carico delle finanze, che si aumentarono assai più delle altre, furono quelle della Real casa, dell’esercito, della marina, della polizia, e per le cose diplomatiche. Le altre spese rimasero presso che nella stessa condizione in che erano, e qualche parte di esse pur minorò»
Su di un totale di 19.911.740 ducati, la metà circa andava all’esercito ed alla marina, con 9 milioni e 250 mila ducati. Si aggiungevano poi spese come polizia (200000 ducati), giustizia (550.000), diplomazia (300000). In pratica, esercito, marina, polizia, con magistratura e diplomazia, ossia le istituzioni chiamate a mantenere l’ordine e custodire il regno da minacce interne ed esterne, ottenevano oltre la metà del bilancio: 10 milioni e 300 mila ducati. La seconda voce più importante era quella per il pagamento del debito pubblico, che richiedeva un esborso annuo di 6.056.661 ducati. Sommando queste sole uscite si superano già i 16 milioni di ducati sui circa 20 del totale. La residua aliquota aveva come principale voce di spesa la Real casa, che richiedeva per il suo mantenimento 1.423.000 ducati. Con il rimanente bisognava curare le spese di amministrazione per aziende pubbliche, pagare le pensioni, distribuire pubblica assistenza, finanziare l’istruzione, costruire strade ecc. Un confronto può dare un’idea di quanto costasse la corte regale allo stato. Come si è detto, la Real casa pretendeva per sé 1 milione e 423.000 ducati, che era il doppio di tutto ciò che si spendeva per pensioni (280 mila), istruzione (228 mila), strade (160 mila) assistenza caritatevole (55 mila e 512). Queste quattro voci riunite arrivavano appena a 723512 ducati. Non sorprende che Bianchini scriva che le strade in costruzione finirono quasi tutte abbandonate. [Lodovico Bianchini, Della storia delle finanze del regno di Napoli, libro III, Napoli 1835, pp. 291-295]
Il Bianchini fa anche sapere che l’altissimo appannaggio per la Real casa fissato nel bilancio del 1790, pari a 1 milione e 223 mila ducati annui, si succedeva con regolarità almeno sin dal 1780. Tale enorme somma (superiore alla somma di tutte quelle impiegate per ospedali, scuole, strade, orfanotrofi …) letteralmente non bastava alla vorace aristocrazia, tanto che bisognava sovente aggiungere a questa spesa ordinaria altre straordinarie. Scrive il Bianchini:
«Ma altre spese estraordinarie per la casa del Sovrano sosteneva lo Stato oltre delle indicate, ed erano per doti alle Principesse, per viaggi delle reali persone, per talune feste ed altre cose simili, le quali secondo le occasioni facevano crescere di assai quel solito assegnamento. Ad esempio, il viaggio fatto dal Re e dalla Regina nel 1780 per l’Italia e la Germania, diede occasione alla Tesoreria di spendere circa un milione di ducati. Nel 1790 andarono a marito due nostre principesse, Maria Teresa, e Luigia Amalia […] La spesa per le doti e i fornimenti sorpassò i cinquecentomila ducali. II Re e la Regina con convenevole fasto si recarono in Vienna per celebrarvi gli sponsali, dove fermarono il futuro matrimonio del principe Francesco, crede della Corona […] il quale matrimonio fu di poi nel 1797 celebrato. Laonde altra spesa fu fatta di 200,000 ducati circa. Un altro viaggio nel mese di maggio del 1800 fece la Regina, e lunga permanenza in Vienna.» Ancora, nel 1802 un altro matrimonio regale comportò un altro esborso: «La somma delle spese passò oltre i trecentocinquantamila ducati» [Bianchini, Della storia delle finanze, cit., pp. 225-226].
Tre matrimoni ed un viaggio (costato da solo il monstrum di un milione, il quadruplo della spesa statale per l’istruzione nel 1790), aveva prosciugato la tesoreria di circa 2.050.000 ducati. Neppure le travagliate vicende politiche e belliche del 1799 frenarono il salasso richiesto da re Ferdinando IV, anzi vi furono addirittura grosse spese straordinarie, perché bisognò provvedere alle spese della Real casa contemporaneamente a Palermo ed a Napoli: «E sedata la rivolta nel 1799, infino a quando da Palermo ritornò Ferdinando, rilevantissima fu la spesa della real casa, perocché doveasi a un tempo provvedere al mantenimento e alle spese che occorrevano alla Regina in Vienna, al Re in Palermo, ed alla regal magione in Napoli.»
Il Bianchini, forse per pudore, omette l’indicazione dell’ammontare della cifra «rilevantissima» consumata dalla famiglia reale e dalla corte in un regno devastato da una guerra violenta e mentre si consumavano vendette e rappresaglie sui vinti. [Bianchini, Della storia delle finanze, cit., p. 226].
Dopo il ritorno a Napoli di re Ferdinando con la Restaurazione, la finanza allegra dell’alta nobiltà proseguì. Il Bianchini annota rispettosamente: «la real casa e la real famiglia si son sempre mantenute con molto lustro; e rilevanti spese si son fatte per cose di arti belle e di lusso. Al 1823 la spesa pel Re e per tutta la real casa sommò a ducati 2.015.857 e 24. Nel 1829 era in duc. 2,049.620». Anche negli ultimi anni del “re lazzarone” alle spese ordinarie si aggiungevano poi quelle straordinarie, fatte per doti, corredi, feste, viaggi … [Bianchini, Della storia delle finanze, cit., pp. 762-763].
L’erede Francesco I seguì le orme dei suoi avi, consumando per il suo viaggio a Madrid in occasione del matrimonio della principessa Cristina quasi 700 mila ducati, precisamente ducati «692,705 e grana 99», come riporta con pignoleria Lodovico Bianchini. [Bianchini, Della storia delle finanze, cit., p. 763].
Andando avanti nel tempo, l’alta percentuale di spesa a favore della Real casa la si può rintracciare anche nel reame di Ferdinando II, che pure fu il sovrano più attento della dinastia alle questioni economiche. La spesa governativa contava nel 1854 un totale di 31,4 milioni di ducati, di cui quasi la metà, 14 milioni, andava alle forze armate, a conferma dell’affermazione di Giustino Fortunato. Buona parte dei restanti era diviso fra gli interessi sul debito pubblico (6,5 milioni) e le spese per la corte regale (con molti milioni).
Le opere pubbliche, la sanità, l’istruzione, tutte assieme si vedevano assegnare la cifra di 1 milione e 200.000 ducati, meno di quanto prosciugasse da sola la corte. Va ricordato che il 1854 fu un anno di dura carestia, seguita da una epidemia di colera. [S. De Renzi, Intorno al colera di Napoli dell’anno 1854 : relazione della Facoltà medica al Sopritendente, Napoli 1854; A. Scirocco, L’Italia del Risorgimento, Bologna 1990, p. 416]. Pochi anni più tardi le nozze tra Francesco di Borbone e Maria Sofia furono celebrate con grande sfarzo, i cui costi furono coperti anche tagliando la spesa per la sanità pubblica.
Il bilancio del regno manifesta con evidenza la natura neppure di classe ma di ceto dello stato borbonico, che era controllato da una classe dirigente tanto piccola quanto ricca relativamente alla restante popolazione. Il gruppo dominante composto da poche migliaia di persone, in apparente noncuranza della vita quotidiana dei sottoposti e della sterminata massa di poveri o poverissimi, prelevava a proprio uso dal bilancio pubblico somme superiori a quelle spese per milioni di sudditi. [Sulla struttura sociale del regno delle Due Sicilie nei suoi ultimi anni e sull’alta percentuale di poveri e mendicanti: D. Demarco, Il crollo del Regno delle Due Sicilie, Napoli, 2000]
5. A chi ha, sarà dato. A chi non ha, anche questo sarà tolto. Il Matthew effect nel reame borbonico
Gli economisti e sociologi anglosassoni hanno definito come Matthew effect, ossia “Effetto Matteo”, un fenomeno economico che consiste in un processo cumulativo che avviene quando nuove risorse sono distribuite fra i vari attori sociali in proporzione a quanto già possiedono. Il termine è liberamente ripreso da un celebre versetto del Vangelo di Matteo (XXV, 29) che recita «Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha ».
Esso può anche comprendere un vero e proprio spostamento di ricchezza dai più poveri ai più ricchi, ossia un prelievo di surplus dai primi a vantaggio dei secondi. In ogni caso, l’effetto Matteo fa sì che i ricchi si arricchiscano ancora di più e che i poveri divengano ancora più poveri. Il Matthew effect solitamente avviene per cause strettamente economiche, ma certo può accadere anche per decisioni politiche o con il loro concorso. Lo stato dei Borboni di Napoli è un esempio di una simile dinamica realizzatasi anche grazie alle scelte governative. Il reame era dinastico e feudale nella sua natura intrinseca, non certo “nazionale” o “popolare”, cosicché esso era controllato da un ceto piccolissimo numericamente, ma che possedeva il grosso della ricchezza del paese. [Una raffinata e sottile analisi dei processi di auto rappresentazione e di propaganda del regime borbonico, improntato a principi di Antico Regime, si ritrova nel saggio di Renata De Lorenzo, Borbonia felix. Il regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Roma 2013]
La normativa e l’economica politica erano pertanto funzionali agli interessi del casato borbonico e delle famiglie aristocratiche che componevano il nocciolo della classe dominante, trascurando la maggioranza della popolazione. L’esito coerente fu che lo stato si configurò anzitutto come il custode armato di questa camarilla, tanto che alle forze armate concepite come strumento di controllo e repressione interni fu riservata la “parte del leone” del bilancio. Le uscite statali rimanenti erano avocate in larga misura dalla corte, dalla diplomazia, dal clero, mentre soltanto le briciole rimasero per infrastrutture, sanità, istruzione.
Le scarsissime spese dello stato per questi settori si spiegano con la possibilità per il ceto egemone di poter ricorrere ai propri ingenti patrimoni privati e così di potere (e volere) trascurare un intervento pubblico che sarebbe andato a beneficio della gran massa dei poveri. Ancora, il governo non arretrò dinanzi alla spoliazione delle classi popolari a beneficio proprio o dei latifondisti, come avvenne con un sistema fiscale che nel secolo XVIII tassava più i poveri che i ricchi o con i giganteschi espropri fondiari avvenuti in Sicilia: appunto, un Matthew effect. Le conseguenze di questa duplice sperequazione, sia economica, sia politica, che era sistemica possono essere valutate ricorrendo al cosiddetto l’indice di sviluppo umano (Hdi, Human Development Index) ed all’indice fisico di qualità della vita (Pqli, Physical Quality of Life Index). Il calcolo di tali indici avviene servendosi sia di criteri economici anche differenti dal PIL puro e semplice (quale la distribuzione del reddito) oltre a diversi di tipo sociale.
Lo storico Emanuele Felice ha analizzato parametri come l’istruzione, la durata di vita media (quindi la salute), l’antropometria (quindi l’alimentazione), confrontando le statistiche del centro-nord e del sud subito dopo l’Unità. Il paragone ha fatto risaltare una disparità netta di condizioni sociali medie fra Settentrione e Meridione sotto ognuno dei termini di raffronto. La Borbonia infelix aveva lasciato un’eredità di un più alto numero di analfabeti, una minore speranza di vita, un popolazione mediamente peggio nutrita. [Emanuele Felice, I divari regionali in Italia sulla base degli indicatori sociali (1871-2001), in “Rivista di politica economica”, Roma, 2007, fasc. IV]
Ottimo e sintetico intervento, che citerò nel mio libro sui canti politici napoletani del periodo borbonico.