L’ossessione neoborbonica per Garibaldi
Riaffiora spesso, nel variopinto mondo “neosuddista” – che accomuna neotemporalisti, neoguelfi, neo-indipendentisti, pseudo-meridionalisti, sicilianisti di destra, sicilianisti ossimoricamente di sinistra etc. – la vecchia calunnia, fiorita in ambienti clerical-reazionari, di un Garibaldi “schiavista”, vocabolo che definisce, secondo il dizionario online della Treccani, «chi sostiene l’istituto della schiavitù; fautore dello schiavismo». Ora, dovrebbe essere noto perfino a chi milita in quel pianeta, data l’abbondanza e la convergenza delle fonti sul punto, che Garibaldi gli schiavi li liberava – come fece a bordo della Scoropilla – o aveva la loro liberazione quale obiettivo primario, come dichiarò a Harry Shelton Sanford, inviato personalmente da Lincoln a Caprera nel 1861 per proporre al generale italiano il comando di un’armata nordista e che si senti chiedere, come condizione per accettare l’offerta, un’esplicita dichiarazione di Lincoln sull’abolizione della schiavitù (D. Mack Smith, Garibaldi, Laterza, Bari 1970, p. 116). E sul tema sarebbe sufficiente leggere l’articolo The progress of the war in «Douglass Monthly» del settembre 1861 di Frederick Douglass, campione dell’antischiavismo americano.
Ma, obiettano gli eroici “revisionisti alle vongole”, la prova di questa accusa è una rivelazione dell’imprenditore italo-peruviano Pietro Denegri a Jack La Bolina, alias A. V. Vecchj, che la trascrisse in La vita e le gesta di Giuseppe Garibaldi, Zanichelli, Bologna 1882, p. 97: «M’ha sempre portato i Chinesi nel numero imbarcato e tutti grassi ed in buona salute». Denegri si riferiva all’importazione di manodopera cinese in Perù che avveniva abitualmente in condizioni disumane, tanto che la storia di quei viaggi è costellata da rivolte armate dei cinesi contro gli equipaggi.
Vero è che un semplice smontaggio semantico del testo basta a svelarne la contraddittorietà, e quindi, se non a dimostrarla inattendibile, almeno a renderla molto dubbia. “Sempre”, dice De Negri: se l’avverbio ha un senso, Garibaldi avrebbe dovuto compiere una molteplicità di viaggi; ma i viaggi furono esattamente “uno”, numero che, a rigor di logica, col “sempre” non si concilia per nulla per chi abbia familiarità con la lingua italiana.
Ben più probante è invece la lettura del “manifesto di carico” del “Carmen”, la nave di cui Garibaldi era capitano in quel viaggio; in quel documento, redatto a fini doganali, e che andava compilato con la massima esattezza, di “Chinesi” non c’è alcuna traccia (il documento apparve sul quotidiano di Lima «El Commercio», 25 gennaio 1853, p. 2, col. 1,) così come “El Carmen” non figura nell’«Estado General que manifesta el numero de colonos que se han introducido a la Republica desde Junio 26 de 1850 hasta Julio de 1853»: entrambi i documenti furono pubblicati da Phillip Cowie, Contro la tesi di Garibaldi negriero, in «Rassegna storica del Risorgimento», vol. 85, f. 3, 1998, pp. 389-397.
Dunque la conclusione più ovvia è che in quel colloquio che il Vecchj trascrisse nel suo libro Denegri millantasse. Di manodopera cinese per le sue attività infatti ne aveva fatta giungere e ne aveva impiegata parecchia: quale certificazione migliore della sua correttezza nel loro trattamento del coinvolgimento di una personalità di fama mondiale come Garibaldi?
Che si continui a contestare l’unificazione nazionale con gli stessi argomenti di centosessant’anni fa e che si pretenda di equiparare le fandonie di qualche ciarlatano alle ricerche documentate di storici seri è davvero sconfortante.
Il problema è che Garibaldi per molto è un capro espiatorio utile per non assumersi alcuna responsabilità.
Quindi qualsiasi confutazione verrà rifiutata a priori da costoro, bisognosi come sono di odiare qualcuno.
E su ciò molti hanno fatto le loro fortune letterarie o politiche.
Non rimane altro che proseguire col debunking e diffonderlo quanto più possibile.