Le vie del commercio nel Sud borbonico
La politica della lesina ostinatamente praticata da Ferdinando II ebbe conseguenze pesantemente negative sul processo di infrastrutturazione del suo regno che presentava in quel settore strategico vistose carenze. Se è largamente, e anche polemicamente, nota la scelta di limitare al massimo lo sviluppo della rete ferroviaria, minore attenzione viene comunemente riservata dalla pubblicistica corrente ai sistemi viari di comunicazione e, al di là della retorica apologetica dei tardi sostenitori della dinastia sull’uso delle presunte «autostrade del mare», perfino al sistema di porti che avrebbero dovuto rendere funzionali allo sviluppo economico dei territori del regno – che di quella politica erano le prime vittime –proprio quelle vie tanto magnificate dai futuri borboniani.
Affermare che nulla si costruì in quei decenni sarebbe ovviamente errato: nessun governo, per quanto miopi fossero le sue scelte nel settore delle opere pubbliche, avrebbe potuto rimanere del tutto immobile sia per rispondere almeno in parte alle richieste provenienti dalle comunità locali, sia perché stimolato ad agire dai rapporti commerciali con paesi come Francia o Gran Bretagna che erano in pieno sviluppo industriale. Ma i risultati di un impegno che fu comunque tardivo ed insufficiente risultarono largamente al di sotto delle attese e delle necessità.
Nel 1860 dei 358 comuni siciliani 182, concentrati soprattutto nelle province di Caltanissetta, Girgenti e Messina, erano sprovvisti di strade rotabili1.La Sicilia, si sa, non era in cima ai pensieri dei sovrani di Napoli ma erano forse migliori le condizioni del sistema stradale nei domini «al di qua del Faro»?
Secondo i dati forniti dal deputato teramano Emidio Devincenzi alla Camera il 21 maggio 1864 in un intervento che sollecitava fortemente il governo a costruire le opportune infrastrutture nelle regioni italiane che ne mancavano2, l’unica delle province dell’ex regno borbonico dotata di un sistema stradale sufficientemente esteso risultava quella di Bari. Sui 1792 comuni delle regioni peninsulari dell’ex regno borbonico quelli «senza alcuna strada» risultavano 1313. Le situazioni più gravi in Calabria, dove su 412 comuni ad essere privi di strade erano in 371, e negli Abruzzi che contavano 323 comuni, dei quali 256 sforniti di strade. Sul territorio della Basilicata correvano appena 455 chilometri di strade. Conferma sostanziale, al di là di poche differenze abbastanza marginali, dell’esattezza delle cifre fornite dal Devincenzi è fornita da Francesco Saverio Nitti in un suo volumetto del 1899: «Ancora nel 1863, quando fu fatta l’inchiesta parlamentare sul brigantaggio, sui 124 Comuni della Basilicata, 91 erano senza strade; sui 108 della provincia di Catanzaro 92; sui 75 della provincia di Teramo 60. Dei 1848 Comuni del Napoletano, 1321 mancavano di strade»3.
Per supplire a questa deficienza bisognava organizzare un gran numero di piccole fiere sparse nelle quali ci si potesse rifornire delle merci che la mancanza di altri canali impediva di procurarsi e vendere i prodotti locali che altrimenti sarebbe stato impossibile smerciare. Le popolazioni delle aree interne vivevano dunque in una condizione di isolamento estremamente dannosa.
Quanto al sistema dei porti, indispensabili in quelle condizioni per garantire efficienti scambi via mare tra le diverse aree del regno, un autorevole membro del corpo degli ingegneri di ponti e strade, Domenico Cervati, esprimeva ancora nel 1859 «forte meraviglia» per il fatto che lungo le coste, oltre ai porti del golfo di Napoli, non vi fossero «che piccoli e poco sicuri ancoraggi», lamentando che quello di Brindisi richiedeva «un vero restauramento», essendo in gran parte interrato, e che la Calabria fosse servita soltanto dal «caricatore di Gioia […] e la meschina marina del Pizzo»4. Il porto di Cotrone, la Crotone odierna, infatti si era colmato «di guisa che – annotava il Cervati – di presente i formaggi, principale industria di quella città, vengono trasportati sopra carri là dove un giorno era mare». E quanto ai porti sull’Adriatico l’autore segnalava le condizioni del porto di Ortona, nel quale le navi da carico erano costrette a fermarsi «alla distanza di tre o quattro miglia dal lido».
In Sicilia gli unici due porti di prima classe erano Palermo e Messina, e perfino le cittadine di Licata e di Terranova, tra i principali porti di esportazione dello zolfo siciliano, non disponevano di un molo. Nessuna meraviglia dunque che la maggioranza delle imbarcazioni della flotta mercantile del regno borbonico fosse adatta soltanto alla pesca o al piccolo cabotaggio, attività per le quali potevano essere utilizzati anche semplici approdi.
1 O. Cancila, Viaggi e trasporti nei secoli XVIII-XIX, in Storia della Sicilia, Società editrice “Storia di Napoli e della Sicilia”, vol. IX, 1977, p. 80.
2 E. Devincenzi, Della mancanza delle strade in molte provincie del Regno, Torino, Botta s.d., pp. 5-6.
3 F. S. Nitti, Eroi e briganti, www.anticabibliotecarossanese.it, p. 28.
4 D. Cervati, Rapporto e progetto per ridurre l’ancoraggio di Sa Venere presso la città del Pizzo, nel golfo di Sa Eufemia, a sicuro ed ampio porto, in Annali delle opere pubbliche e dell’architettura, anno 8°, Napoli, Tipografia di Gaetano Rusconi 1858-59, pp. 215 e sgg.