La scuola “revisionista”
Proprio nella scuola, dove dovrebbero operare insegnanti profondi conoscitori della propria materia, capaci di suscitare spirito critico e di fornire efficaci strumenti di contrasto alla diffusione delle false notizie che costituiscono una delle maggiori insidie per la democrazia, si trovano talvolta “revisionisti” – non chiamateli neoborbonici, per carità – che spargono, ci si augura in buonafede, errori marchiani ed estremismi rancorosi sulla storia del periodo risorgimentale. Accade così di scoprire che l’insegnante di un antico e prestigioso liceo statale – che mi si consentirà di non indicare per nome – denuncia indignato come sia stato l’italiano “codice penale Zanardelli” a prevedere il barbaro “delitto d’onore” che il saggio codice penale borbonico non contemplava. E poco importa che quella fattispecie nel codice borbonico non solo fosse prevista ma venisse punita con una pena irrisoria (art. 338 c.p.) e valesse come “scusante” esclusivamente per gli uomini che uccidevano le donne ma non valeva nel caso contrario. Da un’altra cattedra si insegna che il provvido governo borbonico abolì l’imposta sul macinato in Sicilia nel 1826 (!) stravolgendo la storia economica e sociale dell’isola. Altri ci svela che la coscrizione obbligatoria fu introdotta in Sicilia per colpirne l’economia dal regno d’Italia, designato come regime “nazi-sabaudo” con quanto rispetto per le vittime del nazismo autentico ciascuno giudichi da sè: i sovrani della borbonica dinastia se ne erano ben guardati perché avevano sempre mostrato «attenzione» per l’autonomia della Sicilia. E anche qui con una provvida amnesia si dimentica che la coscrizione in Sicilia era stata invece introdotta con il decreto 6 marzo 1818, n. 1140, proprio da Ferdinando I, revocata poi – ma per l’intero regno – dopo la rivoluzione del 1820 con il decreto 26 maggio 1821, n. 75, e tuttavia ancora prevista nei disordinati provvedimenti in materia emanati negli anni successivi. Basti ricordare il decreto 14 marzo 1823, n. 61, contenente le istruzioni per l’esecuzione della leva, che all’art. 1 prevedeva che spettasse al ministro dell’interno accordarsi con il ministro per gli affari di Sicilia «per istabilire il contingente che dovrà prendersi ne’ domini di qua ed in que’ di là del Faro».
Ancora, il «decreto per lo reclutamento de’ corpi nazionali dell’armata» del 19 marzo 1834, n. 2068, emanato da Ferdinando II, prescriveva all’art. 8 che la leva si facesse «sulla popolazione de’ due reali domini di qua e di là del Faro». Che poi per la robusta diffidenza sovrana nei confronti degli isolani, che sconfinava nella «siculofobia», la leva non avesse «mai avuto reale applicazione in Sicilia»1 è cosa ben diversa. Comunque quella esenzione veniva pagata «otto ducati per ogni individuo del contingente dovuto dalla Sicilia» per testimonianza diretta di Giovanni Cassisi, ex ministro per gli affari di Sicilia in Napoli2.
Quanto al sostenere che il secondo Ferdinando – proprio il sovrano che aveva intimato recisamente al suo «luogotenente generale», duca di Laurenzana, che «la prima cosa a cui bisogna abituare la Sicilia si è di ubbidire; principiar si deve dalle autorità» – rispettasse l’autonomia dei suoi «domini al di là del Faro», per farlo occorre avere ben corta memoria. E guai a correggere questi spropositi: si è additati come censori o, magari, nazisabaudi.
1 Relazione del Maggior Generale Federico Torre sulle leve eseguite in Italia dalle annessioni delle varie Province al 30 settembre 1863, «L’Italia militare», anno I, vol I, Torino 1864, p. 365.
2 G. Cassisi, Atti e progetti del Ministero per gli affari di Sicilia in Napoli, s.d., s.l., p. 161.
Mi scuso con i lettori. Per un mero errore di battitura il numero dell’articolo del codice penale borbonico qui richiamato è diventato “338”. Il numero in effetti è 388. A.M.