La questione demaniale e la confutazione del falso mito del “bandito sociale”
“La guerra per il Mezzogiorno Italiani, borbonici e briganti 1860-1870” non è soltanto un libro sul brigantaggio, poiché esso inquadra il fenomeno in questione, di per sé criminale, in un contesto allargato alla politica, la società, la mentalità e l’economia, al fine di comprendere in quale modo un banditismo esistente da molti secoli nel Mezzogiorno s’intersecò con il complesso processo d’ingresso ed adesione del Sud nel nuovo stato nazionale italiano.
Esso si sofferma anche sull’annosa questione demaniale, molto studiata sin dal secolo XIX ed esaminata da storici dell’economia, della società ed anche del brigantaggio, come quel Franco Molfese autore di un famoso studio sul brigantaggio postunitario. Il professor Pinto anche su questo punto specifico offre un’analisi innovativa, che sebbene riprenda una lunga e gloriosa tradizione storiografica segna anche un mutamento di prospettiva rispetto a posizioni venerande ma obsolete.
Egli scrive che nel 1863 «La politica demaniale […] fu affrontata energicamente. Manna, ministro dell’Agricoltura, annunciò lo stanziamento di una considerevole somma di denaro per il riparto dei beni demaniali, rafforzò gli uffici prefettizi, richiedendo la nomina di un assessore specifico. Un anno dopo, nell’estate del 1864, comunicò che erano state risolte un paio di centinaia di controversie e distribuite 30.000 quote. L’azione ottenne un qualche successo, perché tra il 1863 e il 1865 furono assegnate 63.904 quote. […] Uno studio sul comune di Montescaglioso e sul Materano conferma che la quota di terreni demaniali distribuita ai contadini fu largamente superiore a quella dei decenni precedenti (182 lotti nel 1813 con Murat, 453 negli anni di Ferdinando II, e ben 6.838 nel 1863 a Montescaglioso).» Carmine Pinto, “La guerra per il Mezzogiorno Italiani, borbonici e briganti 1860-1870”, Roma-Bari 2019, pp. 384-385.
È impossibile in questa sede riassumere la totalità del ragionamento svolto dal professor Pinto, per cui basti dire che la riforma agraria, sebbene relativamente limitata rispetto alle richieste, fu comunque maggiore di quanto era stato fatto, o per meglio dire non fatto, nel mezzo secolo della Restaurazione borbonica ed ebbe un suo ruolo nel conquistare il sostegno delle popolazioni rurali al regno d’Italia. La ripartizione di terre compiuta dal nuovo stato era d’altronde una misura con cui i reazionari borbonici, espressione anzitutto di latifondisti laici ed ecclesiastici, ed i loro mercenari, i briganti, non potevano competere. I grandi proprietari nostalgici dei Borboni erano ovviamente sfavorevoli ad una seppur moderata riforma agraria, tanto più che molti di loro erano usurpatori di terre. I briganti, che vivevano taglieggiando le popolazioni e si ponevano al servizio dei reazionari per pure ragioni d’interesse, furono sempre estranei ad ogni causa contadina e spesso anzi funsero da protettori e guardiani dei grandi proprietari che li spalleggiavano.
Il saggio infatti smonta pezzo a pezzo, con dati incontestabili, il mito del “bandito sociale”, una creazione di Hobsbawm tanto popolare quanto contestata dagli storici accademici. Lo stesso Hobsbawm finì con il riconoscere che si trattava di una ipotesi falsa, dopo che una folta schiera di studiosi l’aveva confutata. Malgrado l’idea del “social bandit” sia ormai, in storiografia, nient’altro che un modello interpretativo obsoleto, essa continua ad affascinare dilettanti e giornalisti. Il saggio del prof. Pinto ha fra i suoi meriti quello di offrirne una serrata demolizione.
I brigati furono alleati dei latifondisti reazionari, mentre invece la promozione di una riforma agraria avvenne ad opera dei liberali e dei democratici che si riconoscevano nel nuovo stato italiano.