Il sistema scolastico borbonico alle origini della ‘questione meridionale’
1. Il dibattito sulla questione meridionale ed il ruolo del “capitale sociale”
All’ interno dell’enorme dibattito storiografico sulla “questione meridionale” un punto su cui si ritrova largo consenso è che fra le regioni del centro-nord e quelle del sud esistesse prima dell’unificazione politica del 1861 un divario nelle condizioni sociali maggiore di quello economico.
Il PIL pro capite è cosa differente dai cosiddetti indice di sviluppo umano (Hdi, Human Development Index) ed indice fisico di qualità della vita (Pqli, Physical Quality of Life Index).
Si parla talora in proposito di BSN (Benessere Sociale Netto). Il calcolo di tali indici avviene servendosi sia di criteri economici anche differenti dal PIL puro e semplice (quale la distribuzione del reddito) sia di altri di tipo sociale, a cominciare dall’istruzione, dalle condizioni sanitarie e dalla durata di vita media.
[Le differenze regionali dal 1871 al 2001 per quanto concerne l’HDI od indicatore sociale sono stati analizzati da Emanuele Felice nel suo articolo I divari regionali in Italia sulla base degli indicatori sociali (1871-2001),in Rivista di politica economica, 2007, fasc. IV]
Questa differenza fra nord e sud contribuirebbe a spiegare in parte oppure persino a determinare, a seconda delle interpretazioni, il diverso sviluppo dell’economia posteriore all’Unità.
Gli studiosi abitualmente concordano che esistessero un minore sviluppo economico del Meridione relativamente al Settentrione, considerato sul piano complessivo e quale può essere ricostruito su dati quantitativi. Questo scenario era comunque posto in un paese che non era ancora industrializzato ed in cui le diversità a livello locale e regionale erano più marcate, secondo le ricostruzioni più recenti, di quelle macroregionali.
Uno iato ancora più forte si riscontrava però, secondo quanto sostengono molti studi supportati da ampia documentazione, nel “capitale sociale”, in cui un ruolo di spicco spetta anzitutto all’istruzione. [Una recente sintesi dello status quaestionis è offerta da Emanuele Felice in Italy’s North-South divide (1861-2011): the state of the art, Universitat Autonoma de Barcelona, 16. February 2015, online at http://mpra.ub.uni-muenchen.de/62209/ ]
Può essere utile pertanto soffermarsi sul sistema scolastico del periodo borbonico e sulla capacità od incapacità di diffondere l’istruzione e l’alfabetizzazione della popolazione. Non è possibile in questa sede esaminare esaustivamente il tema, che è stato d’altronde oggetto di molti studi, monografie incluse.
Si può invece proporre una sintesi atta ad evidenziare come lo stato borbonico avesse una politica di classe, che si manifestava apertamente nelle scelte riguardo all’istruzione, la quale intenzionalmente si cercava di circoscrivere anziché d’ampliare. Questo d’altronde era organico ad un più generale indirizzo politico segnato da diffidenza, se non ostilità, nei confronti del ceto colto.
2. La cesura del 1799. Sterminio della classe intellettuale ed alleanza con il Quinto Stato
Il Mezzogiorno nel secolo XVIII conobbe culturalmente una dicotomia fra la presenza di alcuni fra le migliori menti d’Italia ed una scarsa attenzione dello stato alla diffusione dell’istruzione. Il “Settecento riformatore” condusse in altre regioni della penisola, come la Lombardia, la Toscana od il Piemonte, ad un sistema d’istruzione pubblica già nel ‘700, ispirato ad ideali e programmi illuministici.
Il regno di Napoli aveva nella propria capitale, già nelle ultime decadi del dominio ispanico, il maggior centro intellettuale d’Italia ed uno fra principali d’Europa, almeno per quanto concerneva gli studi filosofici, storici e giuridici. Non è necessario ricordare i nomi di Pietro Giannone, Ferdinando Galiani, Antonio Genovesi, Giuseppe Galanti, Mario Pagano, per non parlare di Gian Battista Vico, che furono soltanto i massimi fra i molti intellettuali meridionali di questo secolo.
[La bibliografia da citare sarebbe immensa e non è possibile riportarla per intero. Un riferimento inevitabile è al mastodontico capolavoro di Franco Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969. Un saggio più recente è di un altro grande storico quale Giuseppe Ricuperati, L’Italia nel Settecento: crisi, trasformazioni, lumi, Roma-Bari 1990. Sugli intellettuali illuministi italiani: F. Venturi, Illuministi italiani, Milano-Napoli 1962. Sul regno di Napoli: A. M. Rao, Il regno di Napoli nel Settecento, Napoli 1983. Sulle politiche scolastiche: B. Peroni, La politica scolastica dei principi riformatori in Italia, in «Nuova Rivista Storica», Milano, 1928, III, pp. 265-295; E. Bosna, Alle origini della scuola statale. Progetti e riforme scolastiche in Italia nella seconda metà del XVIII secolo, Bari 1976; A. Bianchi, Scuola e lumi in Italia nell’età delle riforme (1750-1780), Brescia 1996]
Ha osservato in proposito il Galasso: «non furono i sovrani borbonici a rendere grande la Napoli del Settecento, bensì, al contrario, fu questa Napoli a dare ad essi la possibilità di giocare un ruolo anche superiore alle loro capacità e a conseguire una fama superiore ai loro meriti». [G. Galasso, Napoli capitale. Identità politica e identità cittadina. Studi e ricerche 1266-1860, Napoli 1988, p. 224.]
Questa posizione di relativa preminenza di Napoli cade bruscamente dopo il 1799 ed in conseguenza della distruzione fisica di quasi tutta la migliore intellettualità meridionale. La storia culturale del Meridione d’Italia nel periodo compreso fra l’inizio del secolo XVIII e il 1861 è segnata da un profondo iato dato dall’ecatombe del 1799, «quella vera ecatombe, che stupì il mondo civile e rese attonita e dolente tutta Italia» secondo le parole dello storico meridionalista Giustino Fortunato in I giustiziati di Napoli del 1799.
Le dimensioni del massacro o meglio dei massacri, che colpirono con particolare durezza proprio gli intellettuali ed il ceto colto, furono tali da sgomentare persino l’autocratico ed assolutista zar Alessandro I, che giunse a scrivere a re Ferdinando di Borbone così avvertendolo: «in questa maniera state decapitando la testa pensante del Regno!»
Caddero sul patibolo o furono esiliate le migliori menti del Mezzogiorno: fra questi Pasquale Baffi, Mario Pagano, Vincenzo Russo, Eleonora Pimentel Fonseca, Ignazio Ciaia, Domenico Cirillo, Giuseppe Leonardo Albanese, Francesco Caracciolo, Michele Granata, Gennaro Serra di Cassano, Niccolò Carlomagno, Vincenzo Cuoco, Michele Natale, Giustino Fortunato senior e moltissimi altri, in tale copia da rendere lunga anche una semplice enumerazione. Non era necessario essere repubblicani od avere partecipato in qualche modo alle attività dell’effimera repubblica, poiché ad essere colpito “nel mucchio” fu il ceto intellettuale, ritenuto sia dalla corte sia dai loro seguaci sanfedisti collettivamente reo d’idee e di una mentalità incompatibili con la monarchia borbonica. Basti dire che i lazzari assalirono anche il grande compositore Domenico Cimarosa, uomo pacifico e lontano dalla politica, che fu scaraventato da un balcone, ammanettato e costretto ad ingoiare sterco. Il più che illustre musicista, famosissimo in tutta Europa, fu salvato da un gruppo di militari russi, che avevano apprezzato le sue musiche a san Pietroburgo e che lo sottrassero al carnefice.
[Si tratta di fatti ben noti, per cui ci si limiterà a ricordare come riferimento bibliografico alcuni testi venerandi, per primo ovviamente quello di Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, che è un vero Urtext non soltanto per la conoscenza del 1799 nel Mezzogiorno. II ruolo di frattura e svolta dell’esperienza della repubblica napoletana e del suo cruento epilogo ha fatto sì che nel meridionalismo la sua vicenda sia stata particolarmente studiata. Giustino Fortunato, I napoletani del 1799, a cura di B. Iezzi, ristampa degli Scritti vari (Trani, Vecchi, 1900) dello studioso lucano, promossa dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 1989, Benedetto Croce, La rivoluzione napoletana del 1799. Biografie, racconti, ricerche, Bari 1912]
L’ostilità dei lazzaroni e del sottoproletariato meridionale in generale nei confronti degli intellettuali aveva avuto modo di manifestarsi saltuariamente già prima della riconquista di Napoli, con la sommossa antecedente all’arrivo dei francesi, quando fra l’altro furono massacrati i fratelli Filomarino. Il Colletta racconta di come i lazzari facessero irruzione nel loro palazzo e sequestrassero
«il duca della Torre Ascanio e il fratello Clemente Filomarino, quegli noto per poetico ingegno, questi per matematiche dottrine; la casa, ricca di arredi, è spogliata, indi bruciata, distruggendo molta copia di libri, stampe rare, macchine preziose, e un gabinetto di storia naturale, frutto di lunghi anni e fatiche. Mentre l’edifizio bruciava, i due miseri prigioni, trascinati alla strada nuova della marina, sono posti sopra roghi e arsi vivi con gioia di popolo spietato e feroce.»
[L’episodio, di cui accenna brevemente anche il Cuoco, è riportato con maggiori dettagli in P. Colletta, Storia del reame di Napoli, Torino 1975]
Lo sterminio tracciò inoltre un solco di sangue fra la monarchia borbonica e la classe colta. Fu allora che avvenne un evento simbolico come la chiusura in segno di lutto del portone del palazzo Serra di Cassano. Esso era stato frequentato, prima della rivoluzione e durante la sua breve vita, da alcuni fra i principali intellettuali partenopei. La grande porta d’ingresso dell’edificio fu sprangata su ordine del duca Luigi Serra di Cassano dopo che il figlio Gennaro fu condotto a morte per ordine della Giunta di Stato borbonica.
Non sorprende pertanto che gli intellettuali meridionali posteriori al 1799 siano stati quasi sempre antiborbonici: i fratelli Alessandro e Carlo Poerio, l’illustre giurista Silvio Spaventa, l’ancor più illustre giurista Pasquale Stanislao Mancini, divenuto uno dei caposcuola del diritto internazionale all’Ateneo di Torino, Luigi Settembrini, Francesco De Sanctis ecc. ecc.
Avendo massacrato od allontanato ai margini il ceto colto ed avendo scoperto fedele, per interesse, soltanto il Quinto Stato ossia il sottoproletariato, la monarchia borbonica si alleò di fatto coi i ceti sociali più infimi, rappresentanti della “antropologia del vicolo” e della controcultura del crimine comune ed organizzato: lazzari, camorristi e mafiosi, briganti.
Benedetto Croce osservò acutamente che dopo il 1799 i sovrani borbonici ebbero cura di mantenere la popolazione in una condizione d’ignoranza estrema ed al contempo d’emarginare od esiliare l’esigua classe colta, giacché «l’ulteriore provvedimento che doveva garantirli del tranquillo possesso del regno […] era né più né meno che di espellere e di mandare in esilio tutti coloro che avevano dato prove o indizi di volere o desiderare forme di politica libertà: e poiché questo sentimento si era introdotto allora negli animi dei migliori napoletani, dei più colti, intelligenti e amanti della patria, fare di tutti essi, senz’alcun riguardo e remissione, un generale “ripurgo”, secondo la parola che la regina aveva coniata e si piaceva di ripetere con insistenza.
Per altro verso, dopo l’esperienza che solo le plebi, o il fecciume delle plebi, le si erano dimostrate fedeli, attenersi fermamente al pensiero che in queste sole la restaurata dinastia doveva riporre il suo sostegno e la sua difesa, e che a tal fine bisognava serbarle, con ogni cura e industria, nell’essere loro di plebi ignoranti e forti di una bestialità che era utile nelle evenienze.»
[Benedetto Croce, “Il cardinal Ruffo e la riconquista del regno di Napoli”, in “La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da Benedetto Croce”, 41, 1943].
3. L’ostilità verso l’istruzione e la cultura della classe dirigente borbonica
Un filo rosso che attraversa praticamente l’intera storia dello stato borbonico è la diffidenza nei confronti dell’istruzione in quanto tale, che fu apertamente teorizzata e propugnata dalla classe dirigente e dagli stessi sovrani. È superfluo ricordare come Ferdinando I si gloriasse della sua propria ignoranza e che Ferdinando II parlasse spregiativamente degli intellettuali. Re Ferdinando I era fiero del suo soprannome di “re lazzarone”, risultava semianalfabeta e si esprimeva abitualmente nel gergo particolare adoperato proprio dai “lazzari”, paragonabile mutatis mutandis all’argot parigino od allo slang in uso nei quartieri della malavita delle città americane. Ferdinando II invece «leggeva poco o nulla, o ostentava una invincibile avversione per gli scrittori in genere, che chiamava, per disprezzo, pennaruli.»
[Raffaele De Cesare, La fine di un regno: Napoli e Sicilia. Parte I: Regno di Ferdinando II, Città di Castello 1900]. È invece meno conosciuta la radicata volontà di limitare l’istruzione, particolarmente quella popolare.
Antonio Genovesi già nel 1753 sosteneva con il suo “Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze” che fosse opportuno istituire una scuola statale e pubblica, quindi aperta realmente a tutte le classi sociali e gratuita. Il “Discorso” era pubblicato nel “Ragionamento sopra i mezzi più necessari per rifiorire l’agricoltura”dell’abate Ugo Montelatici, poiché il Genovesi riteneva che la diffusione della cultura e dell’alfabetizzazione fossero indispensabile per l’economia stessa.
La sua idea di una scolarizzazione di massa, davvero pioneristica per l’epoca, incontrò ostilità per il timore di un sovvertimento sociale e rimase inascoltata.
[E. Chiosi, Intellettuali e plebe. Il problema dell’istruzione elementare nel Settecento napoletano, in Lo spirito del secolo. Politica e religione a Napoli nell’età dell’Illuminismo, Napoli 1992, pp. 79 sgg.]
I timori provocati dalla rivoluzione francese determinavano in Napoli, fra l’altro, un’accresciuta avversione nei confronti dell’alfabetizzazione popolare che era ritenuta foriera di pericoli per il ceto dominante.
[M. C. Napoli, I Borbone e la paura della Rivoluzione a Napoli, in L. Guidi- M. R. Pelizzari-L.Valenzi (a cura di), Storia e paure. Immaginario collettivo, riti e rappresentazioni delle paure in età moderna, Milano 1992, pp. 191-202].
Durante i primi anni della Restaurazione il dibattito sull’ordinamento scolastico vedeva la contrapposizione fra le posizioni di chi era cautamente favorevole all’istruzione popolare e quelle di coloro che lo avversavano paventando i rischi sociali di una maggiore scolarizzazione.
[G. Bonetta, Istruzione e società nella Sicilia dell’Ottocento, Palermo, Sellerio, 1981, p. 20.]
Fu introdotto in forma sperimentale nel 1817 all’Albergo dei poveri di Napoli il metodo d’insegnamento creato da Joseph Lancaster, che andava a sostituire il cosiddetto “metodo normale”, che era sorto in Germania nel ‘700. A differenza del metodo “normale”, tutt’ora in pratica in uso e che prevedeva che ogni classe avesse un suo maestro, il metodo di Lancaster detto anche di “mutuo insegnamento” ricorreva all’impiego di allievi già istruiti, detti sottomaestri, per concorrere a formare gli inesperti. In questo modo un singolo maestro poteva anche seguire sino a 500 allievi. Questo consentiva di supplire in qualche modo alla scarsità di personale docente preparato, che era uno dei limiti imposti alla crescita del numero di allievi nel regno delle Due Sicilie.
La nuova prassi diede risultati apprezzabili, ma proprio per questo incontrò dei critici, che temevano che esso consentisse una migliore istruzione delle classi povere.
[G. Cari, Piano di educazione per li fanciulli poveri secondo i metodi combinati del dottor Bell e del signor Lancaster, Napoli 1817; L. Valenzi, Alfabetizzazione dei poveri e pubblica beneficenza nel primo Ottocento, in M. R. Pellizzari (a cura di), Sulle vie della scrittura. Alfabetizzazione, cultura scritta e istituzioni in età moderna, pp. 503-21, p. 510; A. Zazo, L’istruzione pubblica e privata nel napoletano (1767-1860), Città di Castello 1927, p. 165.]
Dopo i moti del 1820-1821 la Commissione di pubblica istruzione accusò il metodo di Lancaster d’essere contrario per sua natura ai principi monarchici e propose la sua soppressione. [R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Bari 1950.]
Dopo il suo ritorno dietro alla baionette austriache e l’abrogazione della costituzione, Ferdinando I nel 1821 imponeva agli studenti che non fossero originari di Napoli ossia provinciali e che si trovassero nella capitale per ragioni di studio di fare ritorno a casa.
La causa addotta erano che vi erano «molti giovani sedotti o da qualche maestro speculatore di rivoluzioni, o da certi moderni libri faziosi, o dal contagio morale di pericolosi compagni». [Collezione delle leggi e decreti reali del Regno delle Due Sicilie, cit., decreto n. 16 del 4 aprile 1821, Decreto con cui si dispone che tutti gli studenti i quali appartengono a’ diversi comuni del regno e che riseggono nella capitale, tornino in seno alle loro famiglie ove continueranno i loro studi, pp. 26-28]
Nel 1834 il presidente della pubblica istruzione, monsignor Colangelo, definì l’istruzione privata «peste del Regno» e chiese al consiglio dei ministri il permesso di sospendere le licenze per l’insegnamento. [A. Zazo, L’istruzione pubblica e privata nel napoletano (1767-1860), Città di Castello 1927, p. 204]
Dopo il decreto di Ferdinando II del 10 gennaio del 1843, che riconosceva ai vescovi ampi poteri nel settore dell’istruzione (incluse la nomina o rimozione del maestro delle primarie, la fissazione dell’orario d’insegnamento ecc.), l’ordine dei gesuiti presentava una ricapitolazione degli argomenti contrari alla scolarizzazione di massa. Si sosteneva che essa danneggiava sia la moralità, allontanando dai principi della Chiesa, sia l’obbedienza alle autorità politiche ed il rispetto delle gerarchie sociali. [D. Bertoni Jovine, Storia dell’educazione popolare in Italia, Bari 1965, p. 33.]
Concetti affini furono ribaditi nel 1849 da un periodico intitolato “Lo scandaglio del popolo”, che era stato fondato subito dopo la sconfitta dell’insurrezione del 1848 nel reame borbonico e che naturalmente stampava e pubblicava con l’approvazione della regia censura.
“Lo scandaglio” sosteneva che i moti erano stati sconfitti militarmente, ma che culturalmente non lo erano ancora. Essi avevano cercato di tradurre in azione politica idee diffuse nella società, che si erano propagate grazie all’istruzione. Questo periodico asseriva pertanto che bisognava evitare d’istruire le «classi minute» affinché esse evitassero di «conoscere la loro umiliante inferiorità». Questo avrebbe evitato contrasti sociali e la perdita del sentimento religioso. [D. Bertoni Jovine, Storia dell’educazione popolare in Italia, Bari 1965, pp. 81 sgg.]
Dopo il 1848 gli istituti scolastici privati conobbero una crisi, sia perché alcuni titolari furono esiliati, sia per la proibizione dell’insegnamento a chi fosse straniero nel regno borbonico, oltre che un irrigidimento dei controlli da parte dello polizia e degli episcopati.
[A. Gargano, Regolamentazione e diffusione delle scuole private nel Regno di Napoli tra il XVIII e il XIX secolo, in “Archivio storico per le province napoletane”, CXXVIII (2010), pp. 137-165]
D’altronde, se l’istruzione popolare provocava diffidenza presso i vertici dello stato (è il minimo che si possa dire), gli stessi intellettuali di professione ed in generale gli uomini di cultura non incontravano i favori dei monarchi di casa Borbone. Ricorda il Croce che Ferdinando II parlava degli intellettuali come “pennaiuoli” e li disprezzava, esattamente come facevano i suoi cortigiani. Il colpo di stato compiuto da questo sovrano nel 1848 e la posteriore repressione determinavano l’esilio o l’incarcerazione di molte fra le migliori menti del reame, come il critico letterario di fama internazionale e futuro ministro dell’istruzione del regno d’Italia Francesco De Sanctis.
Anche se non fu sanguinaria come quella del 1799, pure la reazione del ’48-’49 ebbe dinamiche non dissimili nel colpire l’intellettualità meridionale, con le condanne carcerarie di Silvio Spaventa, Luigi Settembrini, Carlo Poerio ed altri ancora. Finirono coinvolti nelle “attenzioni” della polizia anche molti scienziati che si occupavano di discipline lontanissime dalle questioni politiche, come il direttore dell’Osservatorio meteorologico Macedonio Melloni.
[M. L. Cicalese, L’emigrazione napoletana durante il Risorgimento: forme e coscienza (1848-1859), Actes du colloque de Rome (3-5 mars 1988), Publications de l’École française de Rome Année 1991 Volume 146 Numéro 1 pp. 205-215; B. Croce, Storia del regno di Napoli, Milano 1992, pp. 321-322. P. Gasparini-D. Pierattini, Macedonio Melloni e l’Osservatorio vesuviano, in «Le Scienze», XXIX (1996), n. 333, pp. 88-95.]
4. Le spese per l’istruzione nel bilancio borbonico
Logica applicazione in campo finanziario di tale atteggiamento di fondo di repulsione verso la cultura fu una cronica deficienza di risorse per la scuola e l’università.
Nel luglio del 1904 Giustino Fortunato pubblicava uno dei suoi più importanti scritti sulla questione meridionale, La questione meridionale e la riforma tributaria, poi raccolto nel libro Il Mezzogiorno e lo Stato italiano. Fortunato, amico sia di Benedetto Croce, sia di Gaetano Salvemini; da entrambi ricambiato con sentimenti di sincera amicizia e stima, fu anzi uno dei principali studiosi meridionalisti. Egli era di convinzione fermamente unitarie e nazionali, ma conosceva benissimo la storia passata del Mezzogiorno: suo zio era stato un primo ministro borbonico.
Che cosa scriveva il grande Giustino Fortunato nel suo saggio sopra citato? Egli conduceva anche un’analisi delle condizioni dell’Italia meridionale al momento dell’Unità, osservando quanto segue riguardo alla ripartizione delle risorse finanziarie nello stato borbonico: «L’esercito, e quell’esercito!, che era come il fulcro dello Stato, assorbiva presso che tutto; le città mancavano di scuole, le campagne di strade, le spiagge di approdi; e i traffici andavano ancora a schiena di giumenti, come per le plaghe d’Oriente.»
Infatti, il Fortunato osservava ciò che è chiaramente provato sui bilanci dello stato borbonico: le spese erano rivolte in stragrande maggioranza alle forze armate, che dovevano fungere da guardiani della monarchia e della ristretta camarilla del Borbone, in buona parte alle spese di corte, mentre soltanto le briciole spettavano a tutto il resto. Istruzione, sanità, infrastrutture ecc. ricevevano pochissimo. Per portare un esempio, nel 1854 la spesa governativa borbonica contava 31,4 milioni di ducati. Fra questi, 1,2 milioni (1.200.000) erano quelli per istruzione, sanità, lavori pubblici. Ciò avveniva a petto di 14 milioni di ducati spesi per le forze armate e di diversi milioni spesi per la corte regale. [A. Scirocco, “L’Italia del Risorgimento”, Bologna 1990, p. 416]
Le cifre destinate all’istruzione e particolarmente a quella primaria evidenziano la povertà di risorse destinate dal governo borbonico alla scuola. Lo storico Maurizio Lupo le ha così ricostruite per il 1820, il 1848 ed il 1860. Per questi tre anni, il totale di spesa pubblica riservata all’istruzione nelle Due Sicilie comprese rispettivamente il 2,21 %, l’1,16% ed il 1,29% del totale del bilancio statale. Per l’istruzione primaria, che era l’unica per la maggioranza degli studenti, la spesa sul totale fu dello 0.57 % nel 1820, dello 0.29 % nel 1848, dello 0.36 % nel 1860. Si era avuta persino dal 1820 al 1860 una diminuzione della spesa scolastica in termini assoluti (da 551.943 ducati a 458.926), nonostante la popolazione fosse nel frattempo cresciuta (da 5 milioni di abitanti a 6 milioni e 700 mila).
[M. Lupo, Il sistema scolastico, in P. Malanima-N. Ostuni (a cura di), Il Mezzogiorno prima dell’Unità. Fonti, dati, storiografia, Soveria Mannelli, 2013, pp. 283-310].
L’estrema esiguità delle risorse concesse al sistema scolastico, comprendente ogni ordine e grado, spiega sia la mancanza di scuole (nel 1860 un terzo dei comuni meridionali ne erano privi) sia la carenza di materiale anche elementare. Sono significative in proposito le circolari di Emilio Capomazza, il consultore di stato incaricato dell’istruzione primaria. Esse testimoniano in modo minuzioso ed eloquente il lento declinare di questo settore della scuola borbonica. Capomazza scriveva a Ferdinando II che sovente vi era carenza del necessario, inclusi strumenti scolastici come lavagne, libri, quaderni e persino le sedie.
Mancavano anche gli edifici appositi e si era spesso costretti a tenere lezione nelle abitazioni private dei maestri ed in condizione di disordine dovute alla presenza di familiari o di altre persone.
[I. Zambaldi, Storia della scuola elementare in Italia, Roma 1975, pp. 97-98; La Collezione delle Leggi, dei Decreti e altri atti riguardanti la Pubblica Istruzione promulgati nel già reame di Napoli dall’anno 1806 in poi, fu pubblicata a Napoli, presso le Stamperie del Fibreno, tra il 1861 e il 1863, per iniziativa di Francesco De Sanctis.]
Il regime borbonico beneficiava principalmente un gruppo sociale ristrettissimo, costituito principalmente dalla famiglia reale, dalla sua corte e dai latifondisti, laici od ecclesiastici. Era quindi coerente con gli interessi di questa oligarchia che si spendesse moltissimo per le forze armate, che dovevano proteggerla, e pochissimo per l’istruzione, evitando d’allargarla alle masse popolari che si volevano mantenere ignoranti e sottomesse. Non sorprendono le scuole senza neppure sedie quando, per rendere più fastoso il matrimonio fra Francesco di Borbone e Maria Sofia di Baviera, si era proceduto a defalcare la già misera spesa annua destinata alla sanità.
5. Brevi confronti quantitativi
Le conseguenze della mentalità e delle scelte politiche sopra esposte si possono evincere da un rapido confronto fra i dati numerici della scuola meridionale sotto Murat e sotto i Borboni da una parte, fra l’alfabetizzazione nel Meridione e nel resto d’Italia dall’altra.
La costituzione della repubblica napoletana nel suo Titolo X, Della educazione e della istruzione pubblica, teorizzava l’istituzione di una scuola pubblica, primaria e secondaria, enunciandone i principi basilari in una serie di articoli, dal 292 al 306.
Questo forniva la base giuridica per un sistema d’istruzione realmente pubblico nel senso di esteso all’intera popolazione, anche se la breve e travagliata vicenda repubblicana non ne consentì l’effettiva realizzazione. La rapida caduta della repubblica comportò non soltanto l’abrogazione della sua costituzione, di per sé inevitabile, ma anche una serie di misure repressive dello stesso sistema d’istruzione, che finì sotto il controllo ecclesiastico di una giunta ed una commissione apposite. [Sul tentativo della repubblica napoletana d’intraprendere un’istruzione popolare esiste il saggio di R. Capobianco, La pedagogia dei catechismi laici nella repubblica napoletana, Napoli 2007]
Furono i napoleonidi, Giuseppe Bonaparte (1806-1808) e specialmente Gioacchino Murat (1808-1815), a riprendere il progetto di una scuola pubblica. Fra le molte leggi promulgate in proposito fu fondamentale quella del 15 settembre 1810, che rendeva l’istruzione primaria pubblica ed obbligatoria. Pur con molti limiti nell’efficacia delle numerose norme volute da questi due sovrani, dovute alle difficoltà economiche di finanziare le scuole, alla scarsità di personale docente, alle resistenze alla loro applicazione da parte della popolazione (le famiglie spesso preferivano che i bambini andassero a lavorare anziché a scuola), si riuscì comunque ad ottenere una crescita del livello di alfabetizzazione.
L’obiettivo strategico era stato indicato da Vincenzo Cuoco nel suo Rapporto al Re G. Murat per l’organizzazione della Pubblica istruzione nell’anno 1809. Il Cuoco sosteneva che l’istruzione doveva essere universale, pubblica ed uniforme.
[G. Marafioti, L’istruzione nel reame di Napoli durante il decennio dei Napoleonidi (1806-1815), Cosenza 1967; V. Cuoco, L’ordinamento delle scuole nel Regno di Napoli, in Il pensiero educativo e politico, Firenze 1948, pp. 222-225.]
Ferdinando IV di Napoli ossia Ferdinando I delle Due Sicilie dopo il suo ritorno nel territorio continentale modificò il sistema scolastico voluto dal Murat. Già il 2 agosto del 1815 era creata una specifica commissione di pubblica istruzione, che doveva riformare il sistema scolastico affinché esso fosse conforme ai principi del legittimismo.
Il Regolamento delle scuole primarie, promulgato il 1 maggio 1816, poneva questi istituti sotto il diretto controllo del clero ordinario e sotto la vigilanza dei parroci. Il progetto murattiano di una scuola pubblica e popolare fu sostanzialmente abbandonato dal governo borbonico. Si ebbe quindi una diminuzione del numero degli studenti, sia in termini assoluti, sia anche relativi alla popolazione in età scolare.
Nel 1814, il regno di Napoli di Murat aveva 5.500.000 abitanti, di cui 630.000 bambini in età scolare: fra questi, 125.000 erano gli allievi della scuola primaria. Nel 1820, il regno delle Due Sicilie di Ferdinando I aveva 5.800.000 abitanti, di cui 673.000 bambini in età scolare; fra questi, 76.062 erano gli allievi della scuola primaria. Nel 1860, il reame aveva una popolazione totale di 6.700.000 abitanti e soli 67.431 alunni.
Sotto Murat si era avuta una quantità di studenti della primaria praticamente doppia rispetto a quella riscontrata sotto Francesco II quarant’anni dopo (125.000 contro 67.000), nonostante la popolazione totale fosse frattanto cresciuta di 1.200.000 abitanti. Il declino è ancora più marcato difatti in termini relativi, poiché nel 1814 la percentuale di studenti elementari era pari al 4,4% della popolazione, mentre nel 1860 scendeva all’1%.
Nonostante la progressiva crescita della popolazione dal 1814 al 1860, il numero totale di allievi della scuola primaria era andato calando sia in termini relativi al totale di abitanti, sia persino in termini assoluti.
Inoltre Murat aveva avuto a propria disposizione soltanto pochi anni ed in un regno che aveva dovuto affrontare problemi interni di una certa gravità, mentre i dinasti borbonici posteriori avevano avuto quasi mezzo secolo a propria disposizione e lunghi anni di pace.
[Soltanto negli ultimi anni sono stati pubblicati molti lavori sull’argomento del sistema scolastico dei Borboni, che, pur riconoscendogli rispetto a studi precedenti alcuni meriti, confermano la sua debolezza specie nel settore dell’istruzione primaria: G. Genovesi, Storia della scuola in Italia dal Settecento a oggi, Roma-Bari 2001; M. Lupo, La pubblica istruzione durante l’Ottocento borbonico: spunti per una rilettura (1815-1860), in G. Gili-M. Lupo-I. Zilli (a cura di), Scuola e Società. Le istituzioni scolastiche dall’età moderna al futuro, Napoli 2002, pp. 121-141; Idem, Tra le provvide cure di Sua Maestà. Stato e scuola nel Mezzogiorno tra Settecento e Ottocento, Bologna 2005. A. Bianchi (a cura di), L’istruzione in Italia tra Sette e Ottocento. Da Milano a Napoli. Casi locali e tendenze regionali. Studi e carte storiche, Brescia 2011 ].
È utile un paragone anche con il regno di Sardegna. Esso aveva un sistema di scuole secondarie già nel ‘700 (il primo in Italia), anche se esso in origine non era realmente pubblico nel senso di aperto indistintamente a tutti gli allievi. Nella Restaurazione si conservò parte del sistema scolastico napoleonico (già con la legge del 1822 di Tapparelli d’Azeglio),. La legge sarda del 1848 (legge Boncompagni) creò un sistema di istruzione pubblica obbligatorio (ricchi e poveri, uomini e donne, cattolici e non cattolici: e gratuito, poi migliorato con la legge del 1859 (legge Casati) ed esteso a tutto il regno d’Italia: fu uno degli effetti della cosiddetta piemontesizzazione legislativa. Come si già accennato, la Lombardia e la Toscana avevano un sistema di scuole popolari sin dal secolo XVIII.
In conseguenza di tutto ciò, nel 1861 il Nord aveva il 54% di analfabeti, contro l’87% del Sud. La percentuale di studenti universitari in rapporto alla popolazione complessiva era dello 0,3% al nord contro lo 0,1% al sud. Se si considerano Lombardia e Piemonte, la scolarità primaria era pari al 93 %, mentre nel regno delle Due Sicilie arrivava al 18% su di una media nazionale del 43%. Anche la distribuzione geografica delle scuole elementari era sbilanciata, poiché il solo Piemonte ne possedeva rispetto al totale generale (8467) circa un terzo e gli scolari piemontesi costituivano, naturalmente, un terzo del totale degli scolari italiani (361.970).
La Sicilia, con una superficie maggiore della Lombardia e una popolazione di poco inferiore, possedeva sette volte meno scuole della Lombardia (946 contro 7069) e quasi dodici volte meno scolari (25033 contro 302372). Nel Mezzogiorno un terzo dei comuni era totalmente privo d’ogni tipo di scuola. Nel 1859, alla vigilia della fine del reame, esistevano nelle Due Sicilie soltanto 2.010 scuole primarie con 39.881 allievi, 27.547 allieve e 3.171 maestri.
[E. De Fort, Storia della scuola elementare in Italia, Milano 1979; V. Zamagni, Istruzione e sviluppo economico. Il caso italiano. 1861-1913, in G. Toniolo (a cura di), L’economia italiana 1861-1940, Roma-Bari 1978, pp. 137-178; G. Genovesi, Storia della scuola in Italia dal Settecento a oggi, Roma-Bari 2001; B. Fiocco, Le “misure” dell’Italia nell’Annuario Statistico Italiano, Roma 2009]
La responsabilità delle politiche dei Borboni nell’esistenza di un grosso divario fra sud e nord nel “capitale sociale” dell’istruzione è ulteriormente provato dalla sua progressiva diminuzione dopo l’Unità sino ad essere praticamente azzerato.
[Emanuele Felice, I divari regionali in Italia sulla base degli indicatori sociali (1871-2001),in Rivista di politica economica, 2007, fasc. IV; è un’applicazione del concetto di modernizzazione passiva di Luciano Cafagna: L. Cafagna, Modernizzazione attiva e modernizzazione passiva, «Meridiana», 2 (2), pp. 229- 240.]
Quantomeno per quanto concerne l’alfabetizzazione e la scolarizzazione sarebbe problematico quindi ipotizzare che la notevole disparità fra nord e sud riscontrabile nel 1861 fosse dovuta a fattori interni alla società meridionale, potendosi invece attribuire alla scarsità di risorse finanziarie attribuite dallo stato borbonico ed in generale al suo consapevole trascurare la cultura e la scuola per ragioni di interesse politico.
Mantenere ignoranti gli abitanti era un modo per tenerli sottomessi. Il regno delle Due Sicilie avrebbe potuto adottare come motto quello immaginato da George Orwell per il regime totalitario di 1984: «L’ignoranza è forza».
Ottimo articolo. Noto preoccupanti analogie con quanto sta accadendo ai nostri giorni.