I borbonici contro i neoborbonici
L’universo neoborbonico non riesce a spiegarsi il crollo del Regno delle Due Sicilie nell’arco di pochi mesi – la rivoluzione siciliana, riaccesasi nella primavera 1860, conosce una accelerazione improvvisa con lo sbarco dei Mille a Marsala; quattro mesi dopo c’è un governo garibaldino a Napoli – se non attribuendolo ad un complotto planetario che dura ancora oggi, alla corruzione di migliaia di ufficiali borbonici di tutte le armi, e fors’anche al sostegno delle potenze infernali al Piemonte governato da orde di massoni scristianizzatori.
Eppure le cause profonde di quel crollo erano ben note alla sua vigilia anche agli esponenti più fedeli della dinastia. È sufficiente leggere i testi di quel campione del legittimismo che fu Giacinto De Sivo, citatissimo ma scarsamente studiato dagli “storici” accorsi sotto le bandiere del revisionismo alla Antonio Ciano o alla Pino Aprile.
Scriveva infatti don Giacinto, analizzando la politica fiscale di Ferdinando II: «Le tante economie, se coordinate con gli altri principi governativi, sarebbero state gran bene; ma sole, in disarmonia col resto, ne furono talora danno. Esse così assorbirono gli occhi de’ governanti, che questi sol badando al risparmio non vedevan altro. In ogni cosa si voleva spendere poco. Poco per soldi a uffiziali [dipendenti delle amministrazioni pubbliche, A.M.], e n’erano spinti a disonestà; poco per molte opere pubbliche, e talora se ne avean melense; poco per indennità di viaggi, e non s’andava a vedere le cose; poco per la polizia, e quasi più non v’era polizia; poco per tutto, e spesso mancava il decoro. Soprattutto fu cieca l’economia su’ bassi impiegati. […] E il più per campare si vendé alla setta. […] La Finanza per risparmiare battagliava con tutti i ministeri […] quasi il governo non fosse uno, ogni ministero attendeva a stringere tutti; ogni primario amministratore studiava la lesina per presentare risparmii alla fine dell’anno. […] Tanti stringimenti si facevano per non imporre altre tasse, ma essi partorivano una maniera di tasse illegali; perciocché gli uffiziali bisognosi e pagati male, si vantaggiavano sulla povera gente; la quale giudicando grosso, a ogni motto dicevali tutti ladri. Quindi mance per ogni cosa, a uscieri, a servitori, regalie indecorose il Natale e la Pasqua, gli onomastici e i morti; s’era fatto andazzo nel quale pur qualche onesto cadeva» (G. De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, vol. III, Verona, Vicentini e Franchini, 1865, pp. 107-108).
A parte il richiamo consolatorio all’attività della misteriosa “setta”, De Sivo dipinge il panorama desolante di una società allo sbando, priva di un orizzonte, di una prospettiva politica, di una forza morale che possa sostenerla «all’altezza del secolo e della civiltà» (ivi). È soprattutto il risultato di una politica miope, che tenta con l’ordinaria amministrazione, e per di più mal gestita, di trovare le energie per sopravvivere alla propria ragione storica. La lotta senza quartiere contro la parte più viva, più colta, più moderna della società meridionale, condotta dalla dinastia borbonica dal 1799 in poi, in questo tramonto desolato ebbe un peso determinante. La mediocrità dell’ultimo erede della dinastia fece poi il resto.
Ancora De Sivo: «Temuti gli uomini di testa, s’andò cercando la mediocrità, perché più mogia; non si volle o non si seppe cercare i migliori e porli ai primi seggi. E come tutto si tirava alla potestà, i ministri volean parer di fare essi tutto, e però anche del bene che facevano non trovavan merito. Fur messi a una spanna amici e nemici, dotti e ignoranti, operosi e infingardi; e per non fidarsi in nessuno, e non aver bisogno d’intelletti, fu ridotta a macchina l’amministrazione e il governo. Si credeva così non s’avesse mestieri a pensare; e una certa forma d’architettura moveva il tutto. Ma gli uffiziali stessi, usati a mo’ di strumenti, se ne ridevan, o sbottoneggiavano, e profetavano l’impossibilità della durata. La nave dello stato non provveduta di piloti andò in tempo di calma più anni barcollando; poi al primo sbuffo, non trovandosi mano esperta al timone, senza guida affondò» (Storia cit., vol. II, Roma, Salviucci, 1864, p. 255).
Un profondo conoscitore di tutti i meccanismi della corte, il maggiordomo Vincenzo del Balzo, in una memoria per l’erede al trono scritta poco prima della morte di Ferdinando II emetteva un giudizio severissimo sulla crisi che era davanti agli occhi di tutti: «la colpa era stata unicamente del re: lontano sempre dalla capitale. Gli affari più interessanti dello Stato abbandonati». Per ottenere giustizia l’unico mezzo era la corruzione: «Mediante 13 ducati si fa passare una supplica con la più favorevole decretazione».
Il rappresentante napoletano a Vienna, principe di Petrulla, uno dei pochi siciliani rimasti fedeli alla dinastia borbonica durante la rivoluzione del 1848 tanto da essere dichiarato dal parlamento rivoluzionario “traditore della patria”, tracciava del regno ereditato da Francesco II una rappresentazione allarmante: «Noi non abbiamo un’armata bene organizzata. Il nostro giovane sovrano non salì che su un trono basato sulla distruzione di tutti i rami governativi. Noi abbiamo soldati, ma non armata, ed appena per poter frenare la rivoluzione in casa propria. Non abbiamo generali, non abbiamo un governo stabilito né in Napoli né in Sicilia. Non abbiamo marina. Abbiamo l’opinione pubblica di tutta l’Europa contro di noi, grazie ad un’amministrazione di polizia debole, stupida, ignorante e corrotta». E sull’esercito così si esprimeva un anziano ed esperto ufficiale napoletano, che ben conosceva uomini e cose del ramo militare sotto Ferdinando II: «La cura del Sovrano era diretta soprattutto a fomentare la ignoranza e la miseria nella maggior parte degli ufficiali. Il Re si era formato il concetto che quando costoro fossero costretti a lottare con i bisogni quotidiani della famiglia e quindi costretti a non perdere il posto, sempre in pericolo per l’assidua vigilanza poliziesca, non avrebbero avuto velleità patriottiche né avrebbero mai pensato alla politica e riuscì in tal modo a crearsi un esercito a sé, perfettamente segregato da tutta la cittadinanza, precisamente come se fosse stato formato da stranieri» (R. Moscati, La fine del Regno di Napoli, Firenze, Le Monnier 1960, pp. 49, 21, 82-83).
Per fare crollare il Regno, insomma, a leggere i sostenitori della monarchia borbonica non occorreva nessun complotto: i sovrani di Napoli avevano già fatto tutto loro.
Mi fa piacere che questo articolo sia stato ripreso da numerosi siti, talvolta addirittura a puntate forse per la sua eccessiva lunghezza, e senza autore. Forse sarebbe stato opportuno che dichiarassero da dove lo avevano prelevato.