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La mafia dalla realtà al neosuddismo

Che “post hoc ergo propter hoc” sia una fallacia logica, lo si impara alla scuola media. Ma ciò che vale nel mondo reale non vale nel fantastico mondo neo-borbonico, neosuddista, neoqualcosa: e dunque, la parola “mafia” si diffonde dopo l’unità d’Italia grazie alla commedia di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca, I mafiusi di la Vicaria, 1862-1863 (nella quale peraltro compare solo l’aggettivo, ma non il sostantivo)? Ne consegue che la mafia l’hanno fatta nascere Garibaldi, Cavour, il nuovo Regno. Gli archivi restituiscono ovviamente una realtà diversa, come si vedrà subito: ma questo per i tifosi della “vera storia” conta poco.

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Dagli al Risorgimento!

L’anti-risorgimento da fenomeno di nicchia proprio di talune frange del fondamentalismo cattolico e del pensiero antimoderno conquista nuovi spazi e amplia la propria platea con il nascere tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta del XX secolo di movimenti politici localisti in alcune regioni dell’Italia settentrionale. Elemento costitutivo del loro progetto di radicamento è la proclamazione di una sorta di “purezza etnica” – si proclamano discendenti diretti e senza “mescolanze” di «liguri, veneti, celti e longobardi» (G. Oneto, I confini della Padania, «Quaderni padani», a, 2, n. 3, gennaio-febbraio 1996, p. 10) – compromessa dalla nascita di un unico stato-nazione che obbligava ad una forzata e innaturale fusione con altre culture. Il processo risorgimentale va di conseguenza avversato sia per averli inseriti in uno stato nazionale che ne compromette l’identità e nel quale rifiutano di riconoscersi, sia perché ha loro addossato il carico di un’Italia meridionale pigra, malavitosa e sfruttatrice, da mantenere con le tasse estorte da uno Stato centrale che vorrebbero destrutturare.

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CuriositàSocietà

Uffa, che barba!

Nel 1860 la rivoluzione siciliana segna la fine del regno borbonico. È la terza sollevazione popolare in armi contro il governo napoletano dopo quelle del 1820 e del 1848, e uno stillicidio di congiure, colpi di mano, rivolte prontamente soffocate a mano armata ed esecuzioni capitali. L’insofferenza isolana per la soggezione ai «domini al di qua del Faro» non aveva origini soltanto politiche e non derivava di certo soltanto dal colpo di mano con il quale, grazie al sostegno delle potenze reazionarie della vecchia Europa, Ferdinando III nel 1816 aveva cancellato con un escamotage lessicale l’antico regno di Sicilia ma aveva anche profonde e robuste radici che affondavano nel terreno dell’economia. Sul punto è condivisibile la tesi di due autori molto generosi con la politica economica dei governi borbonici che devono però concludere che «il regime borbonico preferì lasciare l’isola nel suo stato di paese prevalentemente produttore di zolfo e derrate, servendosene per lo sviluppo dei territori continentali»1. E numerosi tentativi di fondare stabilimenti industriali in Sicilia si infransero per le manovre degli imprenditori napoletani, decisi a bloccare sul nascere concorrenti che avrebbero potuto sottrarre loro quote di un mercato protetto2.

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Piaghe dell’Istruzione Pubblica napoletana

Napoli, agosto 1860. Francesco II sta di malavoglia tentando di riverniciare di liberalismo il suo trono col nominare un nuovo governo e concedere una costituzione, provvedimenti che serviranno solo a innescare un conflitto politico e sociale che sfocerà poi nel “Grande brigantaggio” post-unitario. Nelle botteghe dei librai compare intanto un libello anonimo – come accadeva spesso in quegli anni per sfuggire alla vigilanza poliziesca, ma scritto da Francesco Del Giudice, uno studioso di problemi pedagogici – che descrive le condizioni del pubblico insegnamento nel reame: titolo, «Piaghe dell’Istruzione Pubblica napoletana».

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CuriositàSocietà

La «Guantanamo» dei Borbone

Alcuni anni fa suscitò grande scandalo la notizia, diffusa dalla barese «Gazzetta del Mezzogiorno», secondo la quale «il Nord voleva una “Guantanamo” per la gente del Sud» (le citazioni tra virgolette sono testuali). L’11 ottobre 2009 infatti la «Gazzetta», quotidiano nel quale aveva lavorato per anni Pino Aprile, informava i suoi lettori che «per battere il brigantaggio, i piemontesi volevano aprire una “Guantanamo” in cui deportare tutti i meridionali». Considerando che nelle regioni meridionali del neonato Regno d’Italia vivevano allora circa nove milioni di persone, doveva trattarsi di una «Guantanamo» decisamente estesa.

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I borbonici contro i neoborbonici

L’universo neoborbonico non riesce a spiegarsi il crollo del Regno delle Due Sicilie nell’arco di pochi mesi – la rivoluzione siciliana, riaccesasi nella primavera 1860, conosce una accelerazione improvvisa con lo sbarco dei Mille a Marsala; quattro mesi dopo c’è un governo garibaldino a Napoli – se non attribuendolo ad un complotto planetario che dura ancora oggi, alla corruzione di migliaia di ufficiali borbonici di tutte le armi, e fors’anche al sostegno delle potenze infernali al Piemonte governato da orde di massoni scristianizzatori.
Eppure le cause profonde di quel crollo erano ben note alla sua vigilia anche agli esponenti più fedeli della dinastia. È sufficiente leggere i testi di quel campione del legittimismo che fu Giacinto De Sivo, citatissimo ma scarsamente studiato dagli “storici” accorsi sotto le bandiere del revisionismo alla Antonio Ciano o alla Pino Aprile.

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