Uffa, che barba!
Nel 1860 la rivoluzione siciliana segna la fine del regno borbonico. È la terza sollevazione popolare in armi contro il governo napoletano dopo quelle del 1820 e del 1848, e uno stillicidio di congiure, colpi di mano, rivolte prontamente soffocate a mano armata ed esecuzioni capitali. L’insofferenza isolana per la soggezione ai «domini al di qua del Faro» non aveva origini soltanto politiche e non derivava di certo soltanto dal colpo di mano con il quale, grazie al sostegno delle potenze reazionarie della vecchia Europa, Ferdinando III nel 1816 aveva cancellato con un escamotage lessicale l’antico regno di Sicilia ma aveva anche profonde e robuste radici che affondavano nel terreno dell’economia. Sul punto è condivisibile la tesi di due autori molto generosi con la politica economica dei governi borbonici che devono però concludere che «il regime borbonico preferì lasciare l’isola nel suo stato di paese prevalentemente produttore di zolfo e derrate, servendosene per lo sviluppo dei territori continentali»1. E numerosi tentativi di fondare stabilimenti industriali in Sicilia si infransero per le manovre degli imprenditori napoletani, decisi a bloccare sul nascere concorrenti che avrebbero potuto sottrarre loro quote di un mercato protetto2.
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